– Secondo te è forte, Balotelli?

Guardo i miei interlocutori. 16 anni in due, dividono la sedia e sono bellissimi. Uno coi capelli a spazzola e gli occhi blu, l’altro scuro scuro con gli occhi a mandorla e la maglia dell’Italia.

– Mi pare di sì.

Protestano vivamente, mentre dietro imprecano per l’ennesimo goal mancato. Accanto al maxischermo c’è lo striscione della Casa degli italiani con una frase che dimentico presto, qualcosa come “Per sentirti sempre a Casa!”. Casa con lettera grande, però, questo lo ricordo.

Ricordo anche la mia replica:

– E voi chi preferite, Balotelli o Cassano?

Quello con gli occhi chiari spiega:

– Cassano. È molto meglio. E poi sono genoano.

In effetti l’accento è di Genova. Prima non l’avevo sentito, quando ha chiesto al padre, dietro di me, “Qual è il portero de l’Italia? Si dice ‘l’Italia’?”.
Il bambino con gli occhi a mandorla, invece, ha un accento del centro e un dubbio atroce:

– Ma Chiellini non è identico a Voldemort?

Romano, decido.

Mentre cerchiamo di segnare questo benedetto spareggio con la Croazia nei cinque minuti di recupero, parlottano tra loro come certi cuginetti napoletani in presenza dei genitori, quando censurano dialetto e parolacce. Mi domando se il loro “dialetto” non sia lo spagnolo, qui. O il català.

– Vedi, Cassano è maleducato. Balotelli è nero e lui è razzista, quindi non vanno d’accordo.
– Balotelli è gay.
Detto come una constatazione, nel senso di “Cassano lo odia per questo”.
– No, sembra che è gay, ma non è gay.

Alla fine escono a giocare, e io ascolto le voci della Casa degli italiani.

– Ma figa, non possiamo fare queste robe qui, sono alti per i falli!
– Ma n’ ‘o poteva sbaja’, er goal?

La Casa degli italiani, invece, sente me in prima fila dire solo “No, uagliu’, no!”, e invocare continuamente quello che sembra un giocatore della nazionale giapponese, tale Maronna-San.

Ma niente, oggi è pareggio. È una nazionale un po’ triste, commento con Stefano, uscendo dal viale nascosto nell’Eixample più elegante. Lo scandalo Juve, Buffon indagato, e tutti che trovano una ragione o un’altra per non guardare gli europei.

Chi lo fa per una giusta causa, i cani ucraini sacrificati al dio Calcio.
Chi non ci crede che ci sia una giusta causa da sbandierare, quest’anno, insieme al solito “il calcio è l’oppio dei popoli”.
Chi si tortura tra vedere la partita e rinnegare il nazionalismo, scomodando deliziosi stornelli anarchici.
E infine, quelli che non si sentono italiani, ma per fortuna o purtroppo sono italiani a Barcellona.

La prima partita l’ho guardata tra uno di loro e una maiorchina che “se segna la Spagna sono contenta, perché in pratica è il Barça, ma se vincete voi non mi uccido mica”.

Stavolta la Spagna non ce la faccio a guardarla, tornando nel Raval. Tanto qua la nazionale (“de qui?”) la seguono e non la seguono, il Folgoso è mezzo vuoto e mezzo pieno, e la parte piena accoglie l’unico goal che vedo con rumore di sedie: ci sono i soliti, la signora mezza ubriaca con accento andaluso, il vecchietto compito che siede in un angolo, e il cameriere bengalese che mi sorride come per dire “Ora siamo al completo. Una clara?”. La novità è un gruppo d’italiani, con uno che spiega all’unica spagnola che non depilarsi le ascelle non è una rivoluzione. “Il femminismo…” conclude laconico. Guardo la spagnola, le auguro mucha suerte e vado prima dell’intervallo. Mi spiace per l’Irlanda, ma vince la Spagna.

Davanti al Macba c’è il Sonar, dalle mura improvvisate e tappezzate di manifesti psichedelici mi accoglie un ronzio che mi fa vibrare la borsa e invidiare assai quelli che hanno pagato una fortuna per entrarci.
La musica migliora mentre ormai svolto verso il Carme, con un argentino che vende empanadas e un collega che mi chiede in moglie (“a vos te pido casamiento”). Per gli standard di qua devo essere particolarmente guardabile, stasera, e la clara comincia pure a farmi effetto, così canto la canzone di un film che guardavo sempre a Manchester, imparata a memoria nel limbo-ricotta tra laurea e dottorato. Mi domando se sia il barrio adatto, ma tanto chi mi capisce, e poi ho una pronuncia che l’ex coinquilina israeliana mi chiuderebbe con gli scarafaggi nella vecchia cucina.

A proposito di cucina, mi arrendo. Voglio il curry di Bismillah, da portare. È una droga. Speriamo solo che al bancone non ci sia…
C’è.
L’amico del mio ex, quello che non approvava la mia presenza e non saluta manco sotto tortura.
E mi serve lui.
Porello, tutto sto viaggio dal Kashmir per servire una zoccola occidentale che sorride troppo. Ma mi accorgo di aver peccato di superbia, magari non saluta nessuno perché è orso e basta.

– Muchas gracias.
– Qué? – sgrana gli occhi, tra il meravigliato e lo schifato.
– Que muchas gracias!
Passa al cliente successivo.

L’alunno di posteggia è più gentile. Sta lì, nel panificio, ad aspettare che le lancette facciano ¾ di giro. Gli sto insegnando a “ligar”, a “posteggiare” in napoletano. Lui mi fa un complimento e gli dico se andiamo bene. È giovane, si farà.
Stavolta mi dice:

– Sono stanco, italiana, è quasi ora di chiudere e sto solo in negozio, meno male che è venuta una chica guapa, grazie per l’energia che mi trasmetti.

Non male, commento con un avventore appena entrato in bicicletta. Mancano le palette alzate, ma brandisco la baguette calda di forno (me la sceglie apposta) e infilo le scale giusto affianco al negozio.
Il cartone che ho trovato stamane proprio fuori la porta è ancora lì. Lo uso per coprire la finestra per il sole, non c’è tenda che tenga e l’altro è bucato, pensavo di cambiarlo. Allora la Provvidenza esiste? Viva il Dio dei cartoni, che veglia su di me.
Mi sfugge un particolare, la morale della favola.

Ah, già.

Io il calcio, l’ho già detto, lo vedo per abbuffarmi e fare bordello, ma in questi 4 anni sono migliorata. Prima quando perdevamo era solo sfiga. O un arbitro bastardo, o degli avversari fallosi.
Adesso li vedo,i goal che non arrivano perché gli attaccanti non si capiscono, perché “il centrocampo è debole” o “non siamo abbastanza cattivi”.
Adesso ho imparato che la sfiga è l’alibi di chi non è abbastanza cattivo con se stesso da dirsi che era colpa sua.

E poi concedersi il bis.

Anzi, il ter.

Lo diceva, quello, che ci vorrebbe il terzo tempo.

(L’inno italiano di riserva)