Adoro il venerdì nel Raval.

È come la domenica, ma più allegro, c’è sia la festa che l’attesa, tra lavoratori che aspettano che cominci il finde, per la settimana corta (il famoso venerdì del villaggio, scusa Giacomo) e pakistani che quando esco alle 15 già tornano dalla moschea.

Ma io sono in missione speciale, così ignoro le loro tuniche immacolate, attraverso rapida Joaquín Costa, per i catalani Joaquim, e scendo il Carme. L’associazione marocchina appena aperta sembra già ben avviata, tra gli annunci illeggibili ne spicca uno in spagnolo: “Domani cominceremo le lezioni di catalano”.

Su Riera Baixa c’è il mercatino vintage, coi negozianti che mettono fuori le bancarelle hipster e si sentono più in dovere che mai di vestirsi come i loro manichini (pure quello degli articoli di guerra). Il negozio di dischi resiste ancora, nonostante il cartello “Si cede per pensionamento”. Una volta mi uccise, mentre tornavo a casa, facendo esplodere nell’aria Il nostro concerto di Bindi, e allora mi fermai a comprare due orecchini alla bancarella vicino, 3 euro, a forma di chiave, ma avevo perso da tempo la serratura.

Ora però tutto tace, e cerco d’intrufolarmi davanti a un carrozzino. Ma la ragazza che lo spinge mi sorride da sotto il velo e mi fa passare, mentre il bimbo, un piede sul poggiamani, balbetta: – Hooo-laaa

Hola, ripete la mamma, con accento più incerto ma dolce.

Hola, rubia! – mi fa, 3 minuti dopo, il cameriere algerino.

Rubia o bionda, a seconda del ristorante “etnico”. Il mio vero nome è così facile da ricordare, così facile da dimenticare.

Hola, dimmi che ce n’è ancora.
– Per te sempre. Chicken, vero?
– Sì, con verdure, senza cipolla.

Non ho chiesto il brodo, ricordo scoprendo che il pollo me lo prende con le mani, dalla casseruola, ma continuo a guardare la televisione, una signora in chador rosa che parla con un’altra più anziana. Chissà che si dicono, penso sfilando per il corridoio di occhi nocciola, a volte neri, che nel locale senza donne ti scrutano quasi rispettosi e fuori, invece, diventeranno “Jooodeeerrr“. Ogni città mediterranea ha la sua imprecazione per le donne.

6 euros, por favor.

6 euros, italiana? – mi fa poco dopo l’alunno di posteggia. – Mica male per un cous cous. Non mi inviti?

Poso la busta sul bancone del panificio, offrendogliela. Lì mi chiamo italiana. E l’ho incrociato sulla soglia ma ha abbassato gli occhi. Allora in francese ho pensato sta chiavanno.

– Grazie, italiana, ma l’ho portato anch’io.
– Quanto hai speso, tu?
Sorride.
– Lo fai a casa, vero?
– Certo!
– Ti odio.

Per Robadors non ci sono passata.
Non ci passo, forse, dalla scena del bambino. Un altro venerdì.
Di sera, però, tra le putas più castigate di me, che le multe sono salate. Passando in fretta ne avevo trovato un gruppetto a discutere, in uno spagnolo strano, Tú uno buscar, tú uno follar. Poi i senegalesi che ti chiamano oye (qui sono oye, come dire ue’), e ancora occhi, sempre occhi, a trafiggere la poca carne gratis.

Finché dal bar più squallido era spuntato questo miraggio in maglietta a righe, un po’ larga sulle maniche. Testolina nera, pelle bianca quasi come il pallone tra le mani. Aveva giocato un po’ vicino al marciapiede, accanto a un’araba coi capelli biondi, poi era sparito in tempo per farmi domandare se non fosse stato una visione, tra l’imponenza della Catalogna che ti scruta dalla vicina Filmoteca, e il viados fuori al baretto che scuote le tette al ritmo di Mossa, mossa, assim você me mata

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