Me ne accorgo per caso, avviandomi sotto un cielo plumbeo che di sole e natura in fiore non ne vuole sapere.
Eppure.
Seguo questa traccia che un fiuto ancestrale, a me che non credo nei fiuti ancestrali, mi fa chiamare col suo nome, ma che è più antica dei nomi nudi delle cose.
Primavera.
La natura che si rinnova, la vita che continua il suo corso dopo il riposo dell’inverno, e le altre banalità che facevano scrivere a noi bambini quando un inverno c’era davvero, e lo faranno anche ora, con questi catalani in miniatura che mi scorazzano accanto in skate o monopattino, vicino alla Rambla del Raval, alternando l’urdu allo spagnolo.
Anche il signore che va in giro vestito da donna, se n’è reso conto. Oggi, sotto la gonna di stoffa pesante dal taglio impeccabile, non ha le calze.
Devo proprio rassegnarmi alla vita che continua. Anche dopo un inverno che è stato una bugia, come quelle che mi ha sussurrato tra qualche pioggerella di rappresentanza e il sole che ora si fa pregare. Le stesse bugie che ho sentito in altre lingue, in altri posti, ma con le stesse e identiche parole, forse perché la paura che le muove è la stessa dappertutto.
Resta da capire perché ascolto quest’annuncio di primavera come se fosse una nota musicale, un accordo che ti evoca chissà cosa e che ti ostini a seguire nel frastuono generale.
Me ne accorgo qualche giorno dopo. Vado alle Cucine mandarosso, che non mi daranno un centesimo per dire che mi ci trovo bene e c’è una bella atmosfera. Quindi potete credermi, o credere alla folla, perché all’anniversario dell’inaugurazione erano piene zeppe come sempre.
E come l’ultima volta, due settimane fa, per sfuggire un po’ alla calca ho seguito le note del locale accanto.
Al piano di sopra fanno una jam, ogni domenica, poco pubblicizzata ed è un peccato, perché ti siedi lì davanti al piano, e puoi restare ore a sentire.
Ma la nota che seguivo non viene dal piano.
Quello mi ricorda solo quest’inverno che invece di esplodere mi è imploso dentro. A esplodermi dentro invece è il sax.
Non so manco che canzone sia. Ma questo sax che attacca all’improvviso mi investe con la garbata violenza che mi piace, arrampicandosi su note che a volte mi sembravano bizzarre, per poi tacere discreto e sorridere a me.
– Nàpols! – mi grida chi lo regge.
Poi dice il mio nome.
Anch’io pronuncio il suo, fingendo di esitare. Appreso in fretta due settimane fa, fuori al bar a concerto finito, prima che i vicini stizziti dal rumore cominciassero a lanciare secchi d’acqua. Ma ricordiamo entrambi.
Poi il sax riprende il suo duetto con la primavera vicina, e le braccia che lo reggono tornano a disegnarsi sotto la maglia di cotone, fino alle spalle abbastanza ampie da reggere tutta la neve che mi è caduta dentro.
Tanto la scioglie il primo sole.