nuvoloso001-250Su TeleQuirinale spiegano la strategia di schede bianche che eventualmente voteranno i sostenitori di Marini per arrivare alla quarta votazione, e io ci capisco meno che i commenti di Vasari sulle pitture senza rilievo della maniera moderna. Capisco solo che il tafazzismo a oltranza che caratterizza la sinistra italiana è lungo a guarirsi, e non so che farci, a parte tornare sempre in Italia per votare.

Nel Palazzo scelgono il Presidente, nel mio palazzo cacciamo il vicino che ha tagliato i cavi alle antenne. All’agenzia immobiliare hanno accolto con una ola la mia protesta, l’ennesima del vicinato, e non mi decido a scrivere la lettera di protesta formale che potrebbe eventualmente costargli lo sfratto. Dove va a finire, quel povero cialtrone? D’altronde siamo stufi di angherie e ha le chiavi del terrazzo accanto al mio, e sa scavalcare, l’ha fatto quando era gentile e mi aiutava in casa.

Però la visione di Marco Mengoni dalla TV recentemente restaurata mi fa associare questo momento incerto a una canzone sua che non conoscevo, immune come sono al bombardamento radio che affliggerà chi è rimasto in Italia: la trovo sempliciotta, linea melodica un po’ scontata, fatta apposta per piacere a tutti e farsi dimenticare in poco tempo. Eppure fa tenerezza nella sua indolenza, come la bella faccia un po’ malinconica di chi la canta.

Anch’io, che la stonerei tutta, ho cominciato il corso di canto e ho scoperto che la prof. fa molto crecimiento personal, che qui va di moda: la voce per scoprire come sei fatto dentro, e chiudi gli occhi e immagina una corda che passi per la tua spina dorsale e colleghi il cielo al centro della terra ecc. ecc. Meno male che faccio mindfulness, mi sto riavvicinando a certe pratiche del mio periodo zen, alla luce dell’esperienza accumulata nei tre anni successivi.

Allora apprezzo di nuovo la vulgata junghiana delle donne che corrono coi lupi, l’esigenza di ritrovare il tuo istinto depredato da quello che i racconti popolari chiamano il diavolo, e che possiamo definire paura, insicurezza. Ho trovato un mio appunto in spagnolo maccheronico, al margine del racconto della fanciulla monca, proprio dove l’autrice dice che il diavolo ti offre un patto scellerato che accetti perché non ne conosci bene i termini. Io ho scritto “a me ha offerto di non sentire dolore, in cambio di non sentire”.

Altri tempi.

La primavera bussa incerta al mio balcone che ora puzza un po’ di gatto, anche se pure la gatta è scomparsa da un po’, incostante senza saperlo, come me. Il cielo non sa se venire giù in una pioggerella di stagione o fare spazio al sole.

Io faccio grandi cose, tutte insieme, e mi stanco, e i risultati non sempre si vedono. Il miglior risultato è, appunto, che le faccia in modo incessante.

Quindi, immagino sia solo la stanchezza, e il pizzico di malinconia che rimane dopo l’inverno, a farmi indugiare in questa giornata serena o poco nuvolosa come nel plaid che stanotte ha sostituito definitivamente il piumone, che ho buttato incazzata in ripostiglio dopo un’ora a rigirarmi nel sonno.

Mentre il mondo cade a pezzi, dicono. Io non spero che me la cavo.

Comincio proprio a crederci.

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