croce Sono tornata in biblioteca.

In effetti adesso dovrei star lì, invece che nel mio soggiorno a mangiare una mela marcia e raccontarvelo. Ma quando le giornate si scompongono come i fili dell’amaca sotto questo vento che adesso mi minaccia le carte della scrivania, quando succede meglio tenergli il gioco. Al vento, dico.

Torno in biblioteca per leggere vecchi giornali (ma proprio vecchi) alla ricerca dei miei soldati, che “miei” ormai non lo sono più tanto. Sono tornati a essere un campo di battaglia, tra Catalogna e non Catalogna. Tra storici che li vedono come uno dei tanti miti di una nazione in cerca di paese, e gente che pensa che, pochi e buoni, erano eroi.

Io ho sempre pensato, innanzitutto, che fossero poveri cristi. Buttati, spesso loro malgrado, in una trincea. E che per sopravvivere ci stava bene, credere che a fine guerra magari la Francia avrebbe aiutato il loro paese a farsi indipendente. Io in quelle circostanze mi sarei messa a credere a Batman, alla Fata Turchina e all’amore eterno, figuriamoci a questo.

Il mio bisnonno operaio socialista diceva che gli austriaci erano brave persone, tu gli dicevi “oggi spariamo noi, domani voi”. E la guerra scendeva giù che era un piacere, o quasi. E con buona pace sua e della retorica penso piuttosto agli uomini che amo ora, fratello amici amori, in una trincea. Io che chiamo dal paese alla prima notizia di scontri a Barcellona durante le manifestazioni. Be’, a immaginarmeli lì mi commuovo nella peggior tradizione di Lacreme napulitane.

E ho adottato questi soldati un po’ spacconi e molto sgrammaticati in vece loro.

Sgrammaticati? In realtà, più vado avanti, più scopro scrittori in erba. Immancabilmente, quando li segnalano nei brevi articoli sormontati da vignette antitedesche, gli scrupolosi redattori filoalleati avvertono “non soffermatevi sulla qualità dei versi, ma sul sentimento che li accompagna”. Roba che io mi sarei offesa, scusate. Avrei chiesto una licenza e sarei piombata in redazione con una marmitta di rancio français tutta per i miei critici. Poi leggo Requiescat in pace, di P. Francis. Viene subito dopo una retoricissima celebrazione del “compaesano” Joffre. Ma questo che riposa in pace, guarda un po’, non è un generale, è un compagno morto. Si capisce pure in italiano:

Els companys sus la creu han posat el képi,
Del clot, del pobre clot la terra encara és fresca,
Un rossinyol content refila en la verdesca.
El capella-soldat ressa un poc de llatí.

È sul finale che alzo gli occhi sulle volte finto-gotiche della Biblioteca de Catalunya, e mi scopro a recitare, in testa ovviamente:

Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro

Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto

Ma nel cuore
Nessuna croce manca

E’ il mio cuore
Il paese più straziato

E allora dico caro P. Francis, autore di Poemes de guerra, non fa niente se non sei Ungaretti. Ho capito lo stesso. E i miei lutti non sono niente, rispetto ai vostri, ma di paesi straziati son pieni i cuori.

Certo che le rondini che svolazzano tra le antenne, mi accorgo adesso, sono un tetto migliore delle volte finto-gotiche.

Ma domani si torna lì.

(Finale serio)

(Finale pop)

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