Quando stava per morire mio nonno paterno, la notizia mi fu annunciata in maniera singolare: “Metti un po’ d’ordine che, se succede qualcosa, poi viene gente”. Di lì a un’ora mio padre, appena arrivato dal capezzale del malato, consolava i miei ululati dodicenni con la frase: “C’è un tempo per tutte le cose… Uno per nascere, uno per morire… “. E continuava con tutto un repertorio di metafore da bestiario medievale, mentre io pensavo solo che volevo che questo tempo allora si fermasse.
Avrei dovuto ripensare all’aneddoto, mesi fa, contemplando il terribile orologio in finto oro, con annessa statua d’Amore e Psiche, che faceva bella mostra di sé all’ingresso della mia nuova casa. Mobilio gozzaniano, è stato definito. Fermo su un orario che non ricordo più, lo stesso che aveva quando il mio amico robivecchi pakistano se l’è portato via, dopo aver quasi spezzato l’aureola alla Madonna barocca che l’accompagnava (l’aveva presa per un gancio). Anche gli altri orologi della casa erano fermi, tranne quello in cucina, che segna un orario assurdo che non ho neanche tentato di correggere, ammaliata da questo suo mondo in cui alle 7 è notte fonda.
Non me n’ero accorta, nelle mie brevi visite a questa casa che ho preso in fretta e furia, senza pensarci troppo, che tutti gli orologi fossero fermi. Per me si sarebbero fermati al terzo giorno di trasloco, e adesso che imbianchini ed elettricisti li hanno tolti dalle pareti, relegandoli all’oblio che meritano, faccio fatica a riavviarli.
Quando morì mio nonno, forse ancor più del dolore era forte l’indignazione di ragazzina beneducata verso la Morte, che si permetteva di bussarmi in casa sotto Natale: il clou del cattivo gusto. Stavolta ero indignata con la vita, che in un momento così importante e così sbagliato, di stress accumulato e sogni di carta che bruciavano rapidi, mi veniva a fare questa visita di auguri in una casa vecchia prima ancora di cominciare a vivere.
Fu allora che scoprii la storia di Miss Havisham. Non che non avessi letto Great Expectations, Grandi speranze di Dickens. L’avevo cominciato, almeno, perdendomi poi nei meandri delle sue luci e ombre.
Non ricordavo, semplicemente, il dettaglio dell’orologio di questa singolare signor(in)a, fermo alle nove meno venti del giorno del suo matrimonio, quando scopre che lo sposino l’ha truffata ed è scappato con la grana. E passa la vita in un’antica magione sempre più decadente.
Mi ci è voluto un bel po’, per decidere che non avrei fatto lo stesso. Ma la cosa più difficile del tempo delle cose non è fermarlo, è riprendere la corsa. Il coniglio di Alice diventa la tartaruga di Achille, al confronto, e riesce comunque a battere il traguardo prima di me.
Che ora mi ritrovo ad ammettere che la signora Morte non visita quando stiamo comodi, e grazie al cazzo, anzi, come la Vita senza cesareo (ir)rompe spesso a notte fonda. E i castelli di carte che si tengono su a stento cadono al primo soffio come certe case antiche, comprate troppo in fretta con gli orologi fermi.
E siccome il mio orologio si è fermato al terzo giorno di trasloco, la primavera ha un bel daffare a bussare e chiedermi se almeno a lei un caffè lo voglio offrire, caffè e vestiti leggeri, ma negli scatoloni ancora imballati non so più dove trovare i suddetti vestiti, ne compro pigra di altri in promozione, finché non mi accorgo che è sparita anche la paccottiglia che spacciavo per gioielli, e allora cerco tra i mobili IKEA ancora smontati (ve li regalo, li volete?) e libri già letti che butto via infastidita.
Dicono che ho un debito, con questa casa. Non se lo meritava, di essere lasciata così, sospesa, quando avrei dovuto ridere in faccia alla sorte e aprire le finestre, darle aria nuova e batteria alle sue lancette. E rispetto a Miss Havisham, spogliata di tutto, grottesco arredamento di una vita che non si arrende alla sorte, rispetto a Miss Havisham i miei debiti col tempo li voglio pagare.
(Il tempo di partire / il tempo di restare)