Nell’ultimo articolo vaneggiavo di controllo, del fatto che fosse impossibile controllare tutto.
È una delle regole d’oro della vita che fatico ad accettare. Ma va bene anche così. Ricordo quanto mi sentivo in colpa per non corrispondere all’amore di chi se ne meritasse tanto. Ora spero che nessuno si sia mai sentito in colpa per non aver corrisposto al mio.
O penso a quanto mi sentirò in colpa se, nonostante tutti i miei sforzi, i progetti di lavoro che comincio ora non vadano a buon fine. Non importa quanto sia imprevedibile l’esito, specie in tempi di crisi economica. Preferisco pensare di non star facendo bene le cose, che ammettere che il successo o l’insuccesso non dipenderanno del tutto da me.
Tra qualche articolo rivelerò urbi et orbi che il problema è aspettare e sperare che quanto accade fuori di noi ci riempia dentro, colmi il vuoto che ci porti a cercare approvazione e amore. Lo so, la vostra vita dopo questa ovvietà non sarà più la stessa.
In tutti i modi, forse quello che ci serve è un’assoluzione. Un’auto-assoluzione, visto che ho fatto l’errore di farmene una colpa. Per il fatto di essere umana. Di non essere la superdonna che avrei voluto, di non poter piacere a tutti, di non riuscire a fare bene tutto.
Temo che ne abbiate bisogno anche voi.
Ebbene, ho scoperto una cosa. È vero che l’autoassoluzione non arriva razionalmente, non è qualcosa che possiamo “procurarci”, come ci si procura un litro di latte. Ma la gabbia in cui ci siamo messi è autoprodotta, non importa a che età ce la siamo costruita. Prima non eravamo così. E allora è da sperare che da qualche parte ci siano tracce di questo prima. Quelle del mio ci sono, le riscontro spesso e volentieri. Per fortuna c’è una… voce di minoranza, in me, che sa quando smettere il lavoro per sopraggiunto sfinimento, o quando la speranza di cercare soluzioni diventa accanimento terapeutico. E se è sopravvissuta la mia, la vostra sarà in ottima forma!
Per evocarla, mi accorgo, il metodo è farle spazio. Lasciarle aperta una porta, aprirci noi alla possibilità che rientri, in modo che le barriere che abbiamo eretto tra noi e lei non si alzino subito. Non è qualcosa che controlliamo, ma succede, come quando le nostre pupille si dilatano o si contraggono a seconda della luce. Non è un riflesso di cui ci accorgiamo, ma meno male che c’è.
E accorgersi che sia così è un gran sollievo.
Perché, se dobbiamo imparare a lasciar andare il controllo, ad ammettere che non tutte le nostre sconfitte sono opera nostra, è confortante sapere che anche le cose belle che ci capitano, possano capitare a prescindere da noi.
Quindi basta martirizzarsi, cercare il perdono da altri, da altro.
C’è una parte di noi che è più che disposta ad assolverci, a farci vedere che quello che chiamiamo colpa è solo autenticità, il nostro sfuggire ai nostri stessi schemi mentali. Ed è più che disposta a riprendersi ciò che è suo, il ruolo nella nostra vita che le spetta.
Tutto quel che dobbiamo fare, sospetto ogni giorno di più, è farle spazio.
Lasciamole la porta aperta e lei saprà come tornare.