Lo so, questa foto da sola (grazie a Feudalesimo e Libertà per l’idea) mi rende degna dei peggiori supplizi.
Ma almeno comincio a capire cosa possa significare “accettare le cose”.
Quando non accetto una situazione in cui mi sono messa, ho notato, è perché quasi sempre ho uno schemino mentale dettagliato su come dovrebbe andare. Comprensivo di come dovrebbero reagire le persone coinvolte, e di come dovrebbe sistemarsi quella parte della questione che dipende solamente dal caso.
E quando mi rendo conto che le cose non vanno secondo questo schema mentale, m’incazzo come una biscia.
Però a nascondermi la follia dell’operazione c’è una constatazione che forse condividiamo, quando vi succede lo stesso: io me lo meriterei, che le cose andassero come dico io (vedi articolo corrispondente).
Meriterei di essere promossa invece del collega maschio, o autoctono, o più cazzimmoso di me, perché io mi sono sbattuta tanto a lavorare e lui è solo il cocco del capo, della dirigente, del preside.
Meriterei che mio nonno invalido mi considerasse il suo nipote preferito, dopo i pomeriggi passati ad accudirlo, invece che preferire il cugino che è stato battezzato col suo nome.
E poi, se becco Francesca da Rimini e la sparata che “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”, la corco talmente di mazzate che la faccio precipitare direttamente sul corno destro di Satana. A quest’ora dovremmo essere sui rotocalchi rosa come “sposa dell’anno”, con tutto quello che abbiamo fatto per degli “stronzi da antologia” (ma sempre stronze/i, ci cerchiamo? Noi, invece, innocenti come agnellini?).
Allora, adesso non cerco di convincere nessuno che la vita sia giusta. Ancora devo digerire bene questa sua lezione che cerco di esporre qua (e si vede).
Mi accorgo soltanto, piano piano, che quando ho un problema al lavoro, una delusione amorosa, un diverbio in famiglia, quello che non riesco ad accettare è il fatto che le cose non stiano andando esattamente come dico io.
Tutto molto sensato, ma la vita non lo è. O non lo è come crediamo noi. A sentire quelli che credono nel caso, nell’assenza di Dio e nella scienza come unica religione, il mondo è fatto davvero a cazzo di cane, le coincidenze non esistono, siamo un po’ in balia degli eventi (ma liberi da costrizioni dogmatiche) e di quanto la nostra ragione saprà fare per metterci al riparo dai problemi. Chi pensa invece che ci sia un destino, una forza superiore, una logica che governi il mondo, ritiene che tale logica ci sfugga, nella visione limitata che ne abbiamo: quindi, se le cose non vanno come previsto, è perché Dio/il destino/la vita hanno altri piani per noi.
Trova le differenze. Anzi, nota bene l’unica analogia: in ogni caso, la vita non ha nessuna colpa per essere diversa da come la vorremmo.
Il concetto stesso di colpa ce lo siamo inventato noi, e meno male che esiste, ma a volte è invadente.
Sto scoprendo anche un’altra cosa: se allora lascio stare le pretese di controllare tutto, faccio solo la mia parte e provo a rilassarmi, le cose succedono.
Non solo succedono, ma non sono mai stata così presente a me stessa come quando mi perdo. È buffo, dopo aver pensato tanto tempo “ma no, sono affezionata ai miei difetti, le mie nevrosi sono simpatiche, se me ne privo non mi riconoscerò più”.
Tutt’altro. A privarsene, credo ora, si è se stessi, ma al meglio. Non si dà il meglio di sé, lo si è.
Ma di questo parleremo, spero insieme, nel prossimo articolo.