Eli_Wallach_012Ci credereste, che L’amore non va in vacanza ha fatto parte di un cineforum, durante il mio dottorato?

E siccome ero una studentessa zelante e desiderosa di imparare tutto quanto i dottorandi hanno a disposizione in Italia (soprattutto attacchinaggio e presenzialismo ai cineforum dei prof) non me ne persi una virgola.

Mi rimase impressa la battuta del trailer che spammavano l’inverno precedente a Manchester (dove me l’ero scansata per El laberinto del fauno, il mio destino spagnolo era segnato). Con lessico cinematografico, il compianto Eli Wallach dava a Kate Winslet una lezione di vita: nei film ci sono le protagoniste e le migliori amiche. Tu sei una protagonista, ma per qualche motivo fai la parte della migliore amica.

Immagino che la frase fosse stata scelta nel trailer perché molte (e molti) di noi si riconoscono nella definizione.

Ci ripenso ora, a più di 6 anni di distanza, perché finalmente l’ho capito: io nella sceneggiatura non sono manco la migliore amica. Vivo direttamente negli spazi tra le battute. Io vivo tra parentesi. O vivevo, spero.

Ero l’amica che ti consigliava quando avevi problemi d’ogni genere, ma quasi mai condivideva i suoi con te. L’alunna che stava zitta per non far vedere che sapeva più degli altri, ma che non si esimeva dal dichiarare l’ignoranza nelle materie che non le riuscivano.
Poi, l’impiegata veloce che, temendo ripercussioni sui compagni di reparto, suggeriva loro al PC le risposte da dare.

In amore, sono stata soprattutto due cose: l’eterna amica che sapeva quando sparire, quando la “titolare” rivendicava l’attenzione del suo amore platonico; quella che “se smettessi di usarmi come passatempo staremmo così bene, insieme”.

Perché lo facevo? Ora mi dico, per due motivi principali.

Il più ovvio è che le cose non possono andare male se non ci provi nemmeno. Se sei il puparo invece che la marionetta è come se i fischi non li prendessi mai tu. O meglio, parafrasando il quinto libro di Trono di Spade: meglio ridere del gioco che giocare e perdere.

E poi perché [attenzione, argomento contorto], a sminuire la mia importanza confermavo a me stessa di essere speciale.

È che ero troppo brava per uscire allo scoperto a scuola o al lavoro. Aiutavo perfino gli altri. Così non dovevo notare le cose ridicole che facevo in campi che non padroneggiavo.

Ero troppo buona rispetto alla Corte dei Miracoli costituita dal mio gruppo di amici: occupandomi dei loro problemi potevo chiudere tutti e due gli occhi sui mille modi che trovassi io per rovinarmi la vita.

L’amore, per esempio. Avere un amore platonico è comodo, così come mettersi in situazioni ultrapoetiche e drammatiche in cui non c’è mai il rischio di ritrovarsi davanti a un divano in pantofole a guardare la Tv insieme. Solo baci furtivi e spazzolini da denti messi di nascosto in borsa, che manco quelli era dato lasciare nell’altra casa. Ovviamente era l’altro che non si accorgeva di che splendida compagna sarei stata, invece che amica o amante. Colpa sua, comunque, io ero quella dell’amore puro che non poteva fare sul serio per reticenza altrui.

Insomma, niente fa sentire così speciali come non fare da protagonista, nella propria vita. Così bravi e condannati dal destino.

L’antidoto, ora ve lo posso dire, siete stati voi. Non l’unico, eh, che pare che vi sto adulando.

Ma insomma, tutto questo mio sentirmi speciale dove andava a parare? Nell’essere unica e irripetibile.

Ed è difficile continuare a crederlo quando qualcuno altrettanto unico e irripetibile si prende il disturbo di scriverti due righe: “Ciao, sai che in questo post mi sono riconosciuta molto?”. “Quello che scrivi qua è esattamente quello che mi sta succedendo”.

Mi sa che non potremmo andare così sincronizzati (smussando le mie follie) se non fosse che siamo fatti della stessa sostanza. Non solo dei sogni, ma degli esseri umani.

E che una delle maledizioni più belle che ci toccano è avere simili bisogni e desideri, anche se declinati in modi diversi. Ve lo dice una che si vantava di volere cose diverse da tutti.

Ma è proprio dura trovare qualcuno che non voglia essere amato, qualunque sia il tipo di amore che cerca, a meno che non creda di non meritarselo, che quella è un’altra storia. Come è difficile trovare qualcuno che voglia essere non dico felice, ma sereno, una volta che capisca come me che tutta l’ansia autoprodotta per evitare le sue paure gliele serve su un piatto d’argento, pronte ad avverarsi.

Insomma, mi state guarendo dall’assurda e arrogante malattia di credere che l’unicità abbia un prezzo.

Si distribuisce gratis, dalla nascita, ma se ne accorgono in pochi.

Per gli altri, mi sa, ci sono i blog autoreferenziali. Ehm.

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