banksy (1)Non dico i primi tempi, eh. Quando pensiamo al suicidio un’ora sì e un’ora no e la compagnia della prozia bizoca che ci usi per reggerle il gomitolo di lana è più appassionante delle nostre notti bianche.

Ma dopo un po’ che soffriamo per ammore il punto non è più lasciar andare il fedifrago, o la grande cessa.

Il punto è lasciarci andare noi. Liberarci, noi.

Perché inglesi e spagnoli hanno la vita più facile? Ve l’avrò già spiegato, in un paio di parole se la cavano egregiamente, addirittura in spagnolo ne basta una: soltar. L’inglese non è da meno: due parole, una lettera in meno. Let go.

In italiano boh, lasciar andare, lasciar correre già no… Vediamo. Liberarsi.

L’idea di togliersi una zavorra di dosso, e allo stesso tempo lasciar andar via un aquilone, una barca legata a un molo, fate vobis.

In ogni caso, girare pagina, liberare il passato, liberarsi del passato.

E niente, ieri in palestra, che è un po’ il mio pensatoio (il che spiega molte cose) mi sono resa conto di questo. Non si tratta di lasciar andare uno, ammettere che dopo mesi e mesi di pianti sempre più radi e inviti a uscire rifiutati con sempre più esitazione è come se si venerasse il ricordo di una cosa che non esiste più, se mai è esistita. Non si tratta di lasciare andare una persona che nemmeno esiste più, che mesi e mesi di corna e macumbe nostre gli avranno pur cambiato i connotati, no?

No, la questione non è lasciar andare lui/lei, è lasciarci andare noi. Permetterci di essere quello che siamo diventati. Le cose che avremo pur imparato tra una considerazione sulle varie forme di suicidio e l’eterno dilemma lo chiamo o no.

Fa quasi paura, liberarsi di un dolore che ci ha accompagnati per mesi. Per quanto faccia male, è rassicurante, è tutto ciò che siamo stati per un bel po’ di tempo. E anche dopo, quando la vita ha ripreso il suo corso, è stato un compagno fedele, una delle poche certezze della vita insieme al fatto che i parrucchieri armati di forbici non sappiano quantificare “due dita”.

Allora, viene il momento atteso e temuto (almeno inconsciamente) di rendersi conto che stiamo sopravvivendo a noi stessi. Che il nostro dolore è ormai un simulacro, avete presente Baudrillard che cita l’Ecclesiaste? Lo so, nota lettura da palestra:

Il simulacro non è mai ciò che nasconde la verità; ma è la verità che nasconde il fatto che non c’è alcuna verità. Il simulacro è vero.

Un’apparenza che non rinvia a nessuna realtà sottogiacente (questa è Wikipedia, vabbuo’?).

Ecco, il nostro amore è così, ormai, un sogno che si appoggia su qualcosa che non esiste più, che non si può riproporre negli stessi termini e no, no, no, non sto dicendo che non ci possiate tornare insieme, in caso siate ancora nell’odiosa fase in cui tutti vi dicono di lasciar andare come se dipendesse da voi. Dico solo che, grazie al cazzo, non sarà più come allora, perché è cambiato l’altro e siamo cambiati noi.

Già, ma come siamo cambiati? Perché l’abbiamo fatto, o almeno l’ha fatto la parte che ci metteva a letto mentre ci chiedevamo se in quel momento stesse con lei, ci buttava sotto la doccia quando ormai i pantaloni del pigiama potevano lanciarsi da soli in lavatrice, che ci armava di spugna e detergente piatti quando la pasta avanzata di tre giorni prima cominciava a chiamarci mamma e chiederci la paghetta.

Insomma, sì, siamo altre persone. Ed è più rassicurante restare con l’ulcera che accettare di vederci alle otto, con quello che ci chiama spesso in chat, alle otto di sera (ci avete provato…) e non alle tre del pomeriggio nel bar più affollato in città.

Ne avremo il coraggio?

Avremo il coraggio di scoprirci?

Di scoprire chi possiamo diventare, se non fossimo troppo impegnati a chiederci chi dobbiamo essere?

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