Sì, siamo stati usati. Da un amico, dai colleghi, perfino in famiglia, messi in mezzo come scusa per decisioni importanti o guadagnati all’uno o all’altro bando di una faida tra parenti serpenti. E, ovviamente, in amore. Messe lì ad addolcire una crisi post-rottura, o arruolati come passatempo in attesa di qualcuno che le interessi davvero.
Magari siamo stati noi a usare, e quando succede abbiamo sempre la scusa pronta. Se lo fanno gli altri, la nostra giusta indignazione sfocia facilmente nel vittimismo.
Chi tende a usare è di quelli che, quando si degnano di chiedere come stiamo, sottintendono in realtà il famoso “Ciao, come sto?“. Una malattia che ha afflitto a lungo anche me, il che rafforza le ipotesi che sto per formulare.
Non è mai così semplice, la sparizione di chi ci usa. Può avere molto da fare, e anche noi non è che siamo proprio liberi da impegni. Può esserci stato un litigio che ha lasciato l’amaro in bocca a entrambi. Può essere imbarazzata per essersi presa l’incarico che sembrava destinato a noi. Può essere matta da legare (e per una volta non parlo di me).
C’è pure questa situazione misteriosa a cui prima o poi dedicherò un post: il tipico “Ti ho fatto del male, QUINDI non ti voglio più vedere”. Boh!
Per non parlare delle difficili situazioni post-rottura, della serie “ma rimaniamo amici”. Seh.
Insomma, possono esserci mille scuse, tra cui una semplice e schietta indifferenza. Che non è mai una colpa, per quanto possa far male.
Ma dopo un po’ che qualcuno che prima era ultrapresente è sparito, il dubbio ci viene: non ci avrà usato? Non sarà rimasto in giro finché non gli siamo serviti a qualcosa? E poi, quando le circostanze esterne gliel’hanno procurata in qualche altro modo, o noi non ne siamo stati più provvisti, o lui/lei, semplicemente, non ne ha avuto più bisogno, be’, allora ciao. Ammesso che si ricordi di salutarci.
E magari si sarà trovato pure una giustificazione più che decente, per la cosa. Se nessuno vuole sentirsi usato, figuratevi in quanti ammettiamo con noi stessi di usare gli altri.
Fin qui, il copione che conosciamo un po’ tutti.
Adesso proporrei un piccolo cambio di prospettiva.
Niente di originale, eh, solo una domanda: ok, non gli serviamo più. Ma lui, ci serve ancora?
Perché, proviamo a essere onesti con noi stessi, in quanti casi si è trattato di un gioco a due? Di un copione che, per un motivo o per un altro, abbiamo acconsentito a recitare?
Costruendo un rapporto in cui dare e ricevere era sbilanciato verso il dare, quindi uno di quei rapporti squilibrati che o trovano un perno che si regga, seppur dolorosamente, a lungo, o collassano appena ne vengono meno i cardini principali.
Dobbiamo tenerne conto, a mio avviso, quando ci lamentiamo di essere stati messi da parte. Ma anche chi ci trova improvvisamente invadenti, nei nostri soccorsi, dovrebbe chiedersi quanto sia stato evidente il suo desiderio di riceverli, finché gli è convenuto.
Ed è convenuto, in qualche modo perverso, anche a noi. Noi con le spalle grandi, che ad aiutare a oltranza qualcuno possiamo sentirci migliori di lui. Noi che crediamo che dare tutto ciò che abbiamo sia l’unico modo per essere amati.
È qui, secondo me, che ci sbagliamo. Quando consideriamo normalità la nostra insoddisfazione, quando ci abituiamo all’idea che non vedremo mai soddisfatti i nostri bisogni, che soddisferemo sempre noi quelli altrui.
Una volta che risolveremo questo nodo (e lo so, è una parola, ma ce la si fa), non avremo più bisogno di quelli che ci usano. Non li useremo più, se preferite. Perché forse ci sono stati infinitamente più utili loro: ci hanno impedito di affrontare i nostri veri problemi.
Ad esempio, il difficile equilibrio tra ciò che vogliamo e ciò che ci diciamo di volere. Adesso che non siamo più occupati a farci usare, dobbiamo proprio trovarlo, quest’equilibrio.
E se noi siamo arrivati a questa consapevolezza prima di chi ci usava, be’, la vita si è vendicata al posto nostro.
Il passo successivo è viverla con tanta pienezza da desiderare che ci arrivino anche loro.