Volevo tornare su una questione che mi preme molto: quella della paura che più la evitiamo più si realizza.
E sì, mi vengono vari esempi, come il racconto orientale che è diventato Samarcanda di Vecchioni, ma ha un bel po’ di secoli all’attivo. Oppure, meglio ancora, il grande classico di Giona, il nonno scemo di Pinocchio. Va’ a Ninive a predicare, gli fa il suo Dio. E lui manco p’ ‘a capa, a Ninive troverò la rovina.
E invece la trova non andandoci, nella bocca di una balena. Insomma, di un pesce molto grande.
Quanto vi suona familiare, questo? A me tantissimo.
Tutte le volte che ho provato a fuggire da qualcosa, ci sono finita giusto dentro.
E per la cronaca, Ninive alla fine “pensavo peggio”, deve aver ammesso Giona quando si è accorto, una volta arrivato, di essere diventato presto il predicatore n. 1.
Perché con le paure succede questo, che la cosa di cui abbiamo paura, di per sé non è brutta come la dipingiamo. È ciò che veramente temiamo (per esempio, essere respinti), che in quel momento è rappresentato da quel lavoro, da quella telefonata da fare, che fa paura.
Io sto avendo un piccolo problema con l’appartamento nuovo. E lo so, sto al secondo trasloco in meno di un anno, ma passata l’urgenza iniziale di scappare dall’altro posto, non mi ci sento più tanto a casa. Ci resto, eh, un terzo trasloco mi ammazzerebbe e conosco problemi peggiori.
Ma la casa da cui scappavo, che avevo ereditato lugubre e piena della solitudine di chi ci viveva prima, si fa ogni giorno più serena, accogliente. Perché ci lavoro su, ci invito gente che la sa amare e trattare bene, la pianta è sempre innaffiata, le pareti imbiancate da poco sono più belle quando c’è qualcuno a riderci vicino.
Questa casa invece è stata una fortuna, è vero, presa in fretta e furia e in un giorno tremendo.
Ma ha un problema: un rifugio difficilmente diventa una casa.
Come una storia in cui entriamo non per chissà che amore, ma perché ci sentiamo al sicuro. Da una minaccia che magari, come Ninive, non era poi sto drammone.
E poi il rimedio è peggiore del male o, per dirla alla Watzlawick (che traviserò clamorosamente) il problema è la soluzione.
Negli amori tiepidi entriamo per sentirci al riparo dalla sofferenza, e in quella caschiamo, spinti dalle nostre stesse ambiguità.
La sofferenza che vedevamo rappresentata invece in un amore vero, la paura della dipendenza ecc, diventa più interessante di quest’incubo, di sicuro più sensata.
Un rifugio non è mai casa, ahimé.
Difficilmente lo diventa.
Che dite, cominciamo? A chiamare casa ciò che davvero lo è. Non quello che ci fa sentire al sicuro, ma quello che ci fa sentire pronti a uscirci al mattino e tornarci la sera.
Sapendo che fuori non sarà tutto rose e fiori, ma davvero, “pensavamo peggio”.