Il grande Parsifal era grande solo nei suoi sogni. Ma nei sogni dovevate vederlo, come torreggiava con la lancia in resta, una spada in pugno e un coltello tra i denti, hai visto mai dovesse affrontare un dragone a tre teste. Quando si svegliava, però, era ancora un ragazzetto con due peli di barba e la stessa camiciola di contadino con cui l’aveva salutato la madre (che ai tempi, già sapete, pulizia insomma…).
Nelle sue prime peregrinazioni, con annessi donne, cavalier, arme e amori, il Nostro Eroe si era pure ritrovato davanti a uno strano castello, indicatogli da un misterioso pescatore che, dall’aria con cui aveva risposto alle sue indicazioni, pareva alquanto malaticcio, e che alla fine si era rivelato un Re.
Nel castello aveva assistito a una curiosa processione di nobili dame che portavano una coppa magnificamente istoriata, con gemme e pietre preziose e tutto quello che deve avere una coppa prima che inventino Indiana Jones per darti il vago sospetto che si tratti proprio del Sacro Graal.
Ma figuriamoci se al nostro impavido, tozzo Parsifal veniva in mente una cosa del genere. Passò tutta la notte nel castello senza chiedere a nessuno cosa stesse vedendo e (soprattutto) a che servisse tutto quello, e al mattino si svegliò in una sala vuota.
Perplesso anzichenò, riuscì a uscire dal castello poco prima che si abbassasse il ponte levatoio (si girò pure, indignato e dignitoso, a chiedere ragione del gesto al fellone che lo manovrava, ma la sua sfida a duello si perse nell’eco delle alte mura e morì nel fossato).
Non gli restava che riprendere la marcia e l’infinita sequela di duelli, draghi, principesse da salvare e streghe da uccidere che faceva a quei tempi il curriculum di un cavaliere (purtroppo per le streghe, che mi stanno assai simpatiche).
Cavalca che ti cavalca, il Nostro Eroe si ritrovò in una radura che ancora rimuginava sul ponte levatoio, come se vedere il Graal e risvegliarsi unico abitante di un enorme castello fossero cose di ogni giorno, quando scorse un fuoco dietro degli alberi.
Poteva essere un cacciatore affamato che cominciava ad assaggiare parte della sua selvaggina; un bivacco di musici girovaghi alla prima sosta; un contadinello fuggito dai campi che, vinto dalla fame e dalla stanchezza, si fermasse a rifocillarsi prima di sparire nelle foreste coi banditi.
Ma no, il nostro cavaliere pensò a quella che per lui era l’unica spiegazione possibile:
– Vieni fuori, chiunque tu sia! Volevi cogliermi di sorpresa, vero? Ma Parsifal non si lascia sopraffare da siffatti vili tranelli. Orsù, cavaliere, sguaina la spada e affrontami in singolar tenzone!
– Ma che vvuo’?
La domanda non era ostile: la fanciulla che, scostando i cespugli che coprivano il fuoco, si palesò davanti a Parsifal, non aveva davvero capito una mazza di ciò che lui stesse dicendo.
– Chi sei, donzella? T’ha rapita il fellone che ancora s’asconde tra la verzura? Non temano questi occhi belli, con me sei al sicuro.
La “donzella” gli lanciò un’occhiata che stava a significare, più o meno, sì, allora sto fresca.
Parsifal la guardò meglio. In effetti, tanto donzella non era. Arruffata, una vestina impudica a coprirle a stento interessanti rotondità, sparse le trecce morbide sull’affannoso petto, la sconosciuta si presentava assai poco propensa a fare da dama, di quelle che danno nomi alle spade e lanciano il fazzoletto all’eroe durante i tornei.
Questa qui, al massimo, avrebbe gettato un fiotto di muco tappandosi una sola narice, e vincendo un apposito torneo di quella specialità, se mai qualcuno si fosse preso la briga di organizzarlo.
Ma il Nostro non aveva tempo e pazienza per fare il tournament planner, quindi si limitò a chiedere alla gentil verginella in cosa potesse aiutarla.
– Verginella sarà tua nonna – rispose quella, ignara del paradosso appena formulato.
Poi gli spiegò che si era fermata a bivaccare ai margini della radura perché c’era qualcuno nella sua capanna, in riva al fiume. Un intruso, un ladro, forse.
A quella notizia, il nostro trattenne a stento la gioia. Un duello!
Allora abbassò la visiera al fiero elmo, sguainò la dolce spada e con uno slancio improvviso, e ammirevole per come andava bardato, si tuffò stile quarterback sulla malcapitata che rientrava nella capanna, facendole pure battere la testa contro un vaso poggiato lì a terra, che aveva tutta l’aria di essere un pitale.
Comunque sia, l’effetto ci fu: dai sacchi di farina bucati che emergevano da un angolino in penombra si udì un rapido raspare, poi un lungo gnaulio e finalmente dalla tenebra che l’aveva inghiottito uscì fuori il malvivente intruso: un enorme gatto rosso.
Che, saltando sdegnoso dal suo nascondiglio, soffiò come un drago incazzato in direzione dei nostri eroi, si chiese in quale casa fosse capitato, che pure i topi erano rachitici e un po’ scemi, e si dileguò in cerca di migliori mete.
– La casa è salva, madonna – s’inchinò Parsifal – adesso potete governare in pace su di essa.
– Bella fatica, hai fatto! – valutò lei sarcastica. Poi lo guardò meglio, anzi, si guardarono a vicenda, soppesarono le carni giovani benché non proprio pulite e profumate, i denti quasi a posto, molare più molare meno, gli occhi cisposi quanto basta, e decisero che era troppo tardi per dedicarsi a lavorare e troppo presto per sedersi a tavola.
Indi per cui, con unità d’intenti, si dedicarono all’unica attività che i loro bollenti spiriti trovassero degna di considerazione.
Vi si dedicarono con tanta alacrità che quando il nostro alzò dal giaciglio di paglia la testa ancora impennacchiata (un vezzo della donzella, e non vi dico che uso improprio era stato fatto dell’elsa della spada) il gallo aveva appena elevato il suo canto di buongiorno al mattino. Il Nostro ebbe allora la cortesia di chiedere:
– Come avete detto che vi chiamate, madonna?
– Biancofiore.
Allora l’eroe si alzò dall’alcova, mano sul cuore, giurò che mai nella sua vita avrebbe dimenticato il soave nome della compagna di quelle inebrianti ore d’oblio, e che l’avrebbe raccomandata alle preghiere della sua regina, la pia e casta Ginevra.
– Insomma, mi molli così? – fece Biancofiore.
– Ma, mia signora, dovrò pur andare a lavorare! Mi aspettano draghi, duelli, donzelle…
– Che?!
– … donzelle da salvare, come già feci con voi.
– Allora sono stata una delle tante?
Qui perfino un babbeo come Parsifal capì di stare su un terreno minato, se mi permettete l’anacronismo.
– Giammai, madonna, vi confonderò con le altre. Non siete voi, sono io. Sarete sempre nel mio cuore, accanto a mia madre e alla mia regina.
– Ecco, vattenne addu chella zoccola d’ ‘a riggina!
Parsifal capì che forse aveva fatto una cazzata.
Allora, senza proferire verbo, che era meglio, si rimise in fretta i gambali dell’armatura e si allontanò, lasciando la donzella in preda a irrefrenabili singhiozzi.
Eh, ma la vita di un cavaliere era così. Salva una regina, accetta la sua ospitalità nelle stanze degli ospiti, misteriosamente comunicanti con le sue, poi ammazza un drago e porta a riparare la spada flambé, che nonostante le principesse e le operazioni di soccorso continua a non avere un nome…
Passarono gli anni e il Nostro aveva un curriculum da paura, ma era sempre un tontolone. Il re Artù e i suoi nobili cavalieri lo mandavano a fare i lavori pesanti: dragare fiumi, salvare le fate, andare a ordinare le pizze per tutto il castello… Quando il nostro eroe si annoiava, doveva solo prendere lancia e scudo e fare un fischio al cavallo: i due si lanciavano all’avventura tra le lussureggianti lande di Cornovaglia (chissà perché, in queste storie di cavalieri il clima di merda non viene mai riportato, come se l’Inghilterra fosse Montecatini. Potenza dell’immaginazione).
Fu così che, cavalcando cavalcando, Parsifal giunse allo stesso castello di 10 anni prima. Il fiero giovane, ormai più esperto, questa volta assisté con molto interesse a tutta la processione, che si ripeteva ogni notte, e cominciò a fare qualche domanda.
– Cos’è quella coppa?
– È il Graal, il ricettacolo del sangue di Nostro Signore Gesù Cristo.
– Ah, sì?
– Boh, una volta era un simbolo della Dea.
– Secolo che vai, usanza che trovi.
– Ben detto, Parsifal. Hai qualche altra domanda da fare?
Questa volta gli avevano dato l’aiutino, perché spezzasse l’incantesimo. Lui guardava i cavalieri e le dame che si riunivano intorno a lui, speranzosi, ansiosi di ascoltare le parole che avrebbe proferito, e particolarmente interessati alla reazione del Re Pescatore. Alla fine il Nostro si schiarì la voce e disse:
– Che c’è per cena? Branzino come al solito?
Tutti crollarono il capo e si disposero a mangiare. Il Re Pescatore andò a dormire, che era meglio.
Il Nostro eroe stavolta si svegliò, sempre solo come un cane nel castello enorme, con la sensazione che qualcosa non funzionasse. Perché erano tutti così attenti alle sue parole? E cos’era che dovesse chiedere, di così urgente?
Ok, c’era una coppa. Tempestata di gemme. Che aveva raccolto il sangue di questa o quella divinità lontana.
Uhm… Stava ancora pensando, quando si accorse di esser giunto di nuovo alla radura della donzella della sua prima gioventù.
Ottimo, pensò. Magari Biancofiore mi dà un sorso d’acqua e, se sono fortunato, mi offre ancora un giaciglio.
Ma la capanna era sparita. Al suo posto c’era uno splendido palazzo a tre piani, con scudieri e fantesche carichi di brocche, striglie per i cavalli, e ogni genere di ben di dio destinato alle grandi cucine.
Accanto al palazzo scorreva un ruscello, piccolo ma potente, e accanto al ruscello girava in un moto perpetuo la ruota di un mulino. Accanto al mulino, tutti i contadini del circondario, disposti in una fila disordinata, attendevano il loro turno per macinare. La fiumana di gente non finiva mai, e sì che si erano svegliati prima del sorgere del sole, per presentarsi in tempo sul posto.
Parsifal si fece largo nella ressa di contadini e piatti di grano e tra stracci e berretti usurati da pioggia e sole, intravide due lunghe corna di seta, di quelle che all’epoca, con nostro sommo stupore, erano l’ultimo grido per le acconciature femminili.
Sotto le corna, poste su un’ordinata pioggia di lunghi capelli biondi (che una volta erano neri solo per scarsissima igiene) c’era una giovane sconosciuta e sorridente, che aiutava un anziano contadino a porre il grano nella macina.
Quando vide il cavaliere, i suoi grandi occhi smeraldo si sgranarono per la meraviglia.
– Ecco l’artefice della mia fortuna! – gridò ai presenti.
Dopodiché Biancofiore, che la dama non era altri che lei, prese il cavaliere per mano e lo condusse nel suo palazzo.
– Non capisco nulla di ciò che sia successo – commentava il cavaliere, togliendosi di dosso una ghirlanda di fiori appioppatagli da una fattoressa.
– Come sempre – osservò lei, con una smorfia sarcastica che ricordava un po’ la villanella conosciuta tempo avanti. – Sei l’artefice della mia fortuna. Quando sei andato via ho pianto a lungo, giorni, mesi, anni. Ho pianto tanto che le mie lacrime hanno formato questo ruscelletto che ora costeggia il mio palazzo. È piccolo, ma ha una forza incredibile, come una cascata, come l’oceano se cerchi di domarlo. Allora, piano piano, facendo dei debiti, vi ho costruito la ruota di un mulino. I villani arrivano ogni giorno a macinare il loro grano.
Parsifal se la strinse al cuore, e lei, dopo un po’ di affettata resistenza, lo lasciò fare.
Il cavaliere si rammaricò molto che lei avesse pianto tanto da generare un fiume, d’altronde la vita del combattente era quella e lui non poteva trattenersi tanto temp…
– Zitto, lo so. Ora so che il mio errore è stato cercare di trattenerti, mio cavaliere. Stavolta resterai perché vorrai tu.
Detto ciò, si liberò d’un gesto della tunica bianca che le copriva le carni sode e profumate, e i due si rotolarono in quella farina misteriosa che il mulino macinava, e che sembrava talco, ma non era.
Parsifal restò a lungo presso il palazzo.
La mattina andava ad ammazzare draghi, e qualche notte dimenticava di tornare. Ma alla fine un piccione annunciava sempre il suo arrivo, e Biancofiore, sospirando, gli faceva trovare le lenzuola ricamate e la coppa di vino sempre pronta.
Fu vedendo la coppa, un giorno che era stato lontano a lungo, che Parsifal si ricordò. Gli restava la missione del Graal.
Com’era possibile che si fosse dimenticato così?
Si affacciò al balcone e osservò un prodigio. Una giovinetta biondissima, il corpo alto e snello avvolto in una lunga tunica bianca, gli faceva cenno di avvicinarsi. Ma ogni volta che accennava a scendere, lei si faceva sempre più diafana, fin quasi a scomparire. Era una visione.
A un certo punto, quella splendida apparizione indicò la foresta, in direzione del castello del Graal. Poi sparì.
Parsifal non poté più né mangiare né bere. La notte prendeva Biancofiore in fretta, distratto, come se stesse liberando le viscere dopo un’abbuffata da fagiano.
Biancofiore mordeva il cuscino. Finché un giorno, mentre presiedeva alle operazioni del mulino, vide uno scudiero avvicinarsi, un sorriso mesto sul volto.
– Lo so, disse. So tutto.
Parsifal aveva raggiunto la fanciulla, che l’aveva condotto per tutta la strada riapparendo a ogni crocicchio, e sparendo ogni volta che il cammino si faceva dritto e piano.
Arrivato al castello del Graal, non la vide più.
Il castello non era mai stato così affollato. Sembrava che tutte le dame e i cavalieri dei dintorni si fossero dati appuntamento per un maestoso banchetto.
Il Re Pescatore era più mesto che mai.
Al momento della processione del Graal, la folla sembrava aprirsi attorno a Parsifal.
Assistendo alla sfilata di dame e cavalieri che portavano oggetti a lui incomprensibili, Parsifal si scoprì a chiedere:
– Cos’è il Graal?
– È la coppa della vita – rispose una voce soave.
Si girò sorpreso. Era la dama bianca.
Avrebbe voluto abbracciarla, ma lei fece no con la testa. Non rovinare tutto, chiedimi quello che devi, dicevano i suoi occhi.
Parsifal capì, la ebbe e la perse in un istante solo, quello in cui chiedeva:
– E a chi serve il Graal?
Le iridi azzurre della fanciulla si fecero acquamarina sotto una nebbiolina di lacrime. Sorrise felice e infelice insieme e rispose:
– Il Graal serve al Re del Graal.
E sparì. Finalmente il cavaliere aveva trovato la domanda giusta per rompere un incantesimo.
Il dolore di Parsifaal per la perdita fu coperto da un urlo, proveniente dal fondo della sala.
– Sono guarito!
Il Re Pescatore si alzò gagliardo dal suo trono e fece una specie di piroetta, che fu accolta da grandi applausi.
Poi abbracciò Parsifal.
– Grazie per essere tornato. Se fallisci una volta, bisogna sempre riprovare. Il Graal è fatto per questo, per svuotarsi e riempirsi di sangue per chi ne ha bisogno. Il sangue della vita che è vita e morte insieme, e amore, Parsifal. Amore.
Già. Amore.
Quando, di lì a poco, il Re Pescatore morì, Parsifal venne incoronato al suo posto. Governò giustamente e cercò di non smettere più di farsi domande. Anche quando le prime strie grigie cominciarono a solcargli i capelli sempre arruffati.
Un giorno, però, decise di uscire dal castello. Il suo cavallo era ormai vecchio e a riposo, ma volle proprio quello.
Ripensava alla gioventù che aveva barattato con la saggezza, come temeva sarebbe successo. E così non si accorse di esser passato fuori a un enorme castello, bellissimo, pieno di torri merlate e ponti levatoi. Come aveva fatto a non vederlo prima?
E quale re poteva essere più potente di lui, nel circondario?
Si fermò a chiedere. Una ragazzetta che passava saltellando tra i ciottoli di un ruscello familiare gli diede il benvenuto e lo chiamò “mio re”.
Com’era possibile?
– Di chi è quel castello, bambina?
La ragazzina sorrise un sorriso che conosceva, quello della dama bianca che un tempo l’aveva innamorato, portandolo via alla sua antica amante… Già, come si chiamava, quella là? Accarezzò la sua vecchia spada, che una notte di luna e vino rosso aveva appellato improvvisamente “Biancofiore”, e ricordò.
La ragazzina prese a correre veloce tra l’erba, e il vecchio cavaliere e il decrepito cavallo si lanciarono all’inseguimento.
Costeggiarono il castello saltando sassi e fossi, al di qua e al di là del ruscello che a un certo punto diventava un rapido fiume, solcato da ponti levatoi. Proprio vicino alla sorgente, la piccola guida si fermò di scatto, di fronte a una bellissima dama bionda.
La giovane si girò, e Parsifal trattenne a stento un grido. Aveva i suoi occhi.
– Chi siete? – gli chiese la fanciulla, turbata, raccogliendosi le vesti sontuose per avvicinarsi.
Sentì la bambina ridere alle sue spalle.
– Non vedi che è tuo padre, mia signora?
E la bambina diventò la dama bianca, si alzò in piedi, lanciò un ultimo bacio a Parsifal che la contemplava sbigottito e svanì nell’aria.
L’uomo e la fanciulla si contemplarono a lungo.
– Padre – riconobbe lei alla fine. – Ti facevo più alto.
Parsifal scese da cavallo, indispettito dal commento, e capì pure di chi era figlia quell’impudente.
– Adesso mi spieghi cosa sia successo, figlia mia. E dov’è tua madre. Devo chiederle perdono.
La ragazza represse un risolino.
– Non è necessario. Prima di tutto, perché mia madre ora è in un posto migliore. E poi, perché ti ha già perdonato da tempo.
E lo prese per mano e gli spiegò.
Dopo la sua nuova partenza, Biancofiore aveva pianto ancora. Il ruscello era diventato un fiume lungo e solido e lei era diventata quel fiume, dissolvendosi nella spuma delle sue correnti, spogliandosi delle sue vesti e vagando sulle rive solo di notte, per cibarsi di erbe.
Fino alla notte di plenilunio in cui si era accorta di essere rimasta incinta.
Allora era tornata al palazzo, si era seduta alla tavola ormai spoglia e disadorna e aveva ordinato da mangiare.
Il giorno dopo si era recata al mulino e aveva preso a macinare con le sue mani. Osservando la prima farina non aveva creduto ai suoi occhi. Il grano era diventato oro puro.
Biancofiore era divenuta ricchissima. I contadini prosperavano e nella regione era sparita la povertà. La saggezza si era unita alla prosperità e nel regno, giacché la Nostra Eroina era stata proclamata regina, c’era l’abbondanza.
Biancofiore aveva dato alla luce una bella bambina con gli occhi del padre e i suoi capelli biondi, e mai più nella sua vita aveva nominato l’uomo che l’aveva abbandonata per seguire una chimera.
Solo la notte di luna piena in cui era sparita, per fondersi per sempre all’acqua del fiume (“È tempo, figlia mia, ti lascio in buone mani”), aveva detto alla ragazza che Parsifal, un giorno, sarebbe tornato.
Ascoltando quelle parole, Parsifal s’inginocchiò e pianse. Aveva passato una vita a lottare senza mai farsi le giuste domande, inseguito chimere e perso di vista l’amore, che l’aveva sempre aspettato lì accanto, senza mai reclamarlo né pregarlo, come solo l’amore sa fare.
– Non piangere, padre. È stato tutto necessario perché tu e io fossimo qui insieme, ora. Nessuno potrà più separarci.
E infatti nessuno, né Graal né dame bianche, poterono separare il re e sua figlia in quel prospero regno che non esiste più.
Il ruscello, poi diventato fiume, sembrò sparire quando secoli più sfarzosi seppellirono sotto la falsa luce della ragione quelle gentili tenebre baciate dalla luna. Ma non era mai scomparso davvero, si era solo inabissato nella terra, inghiottito dalle sue viscere profonde e forti come quelle della donna che l’aveva partorito.
E scorre ancora, stanne certa.
Forse scorre proprio sotto casa tua.