Periodo di esami, per tanti amici miei. Non quelli coi voti e le domande da copiare, ma senz’altro esami, a volte anche più difficili perché in ballo non c’è la media, ma la propria immagine di sé.
Così i dottorandi stanno scoprendo cosa significhi entrare in un mondo pieno di corruzione, con qualche rara oasi di normalità; chi fa i concorsi sta scoprendo l’impotenza di fronte a domande che sfuggono a qualsiasi schema e sembrano fatte apposta per far vincere chi “deve”; chi ha cominciato una relazione dopo tanti anni di precariato sentimentale si sta rendendo conto che non è sempre passione, le cose si costruiscono giorno per giorno.
Insomma, tante prove, e quella che viene messa davvero alla prova è l’individualità, la risposta alla domanda chi sono?
Qui torno alla differenza, noto cliché poppettaro inglese, tra ciò che vogliamo e ciò di cui abbiamo bisogno. Perché, le rare volte in cui la crisi è stata clemente, qualcuno ha avuto l’opportunità di scoprire, e non in mode volpe e uva, che la vita che voleva fare fosse altra, che stesse portando avanti il sogno dei genitori e non il suo, o che rischiava di sposarsi con una persona diversa da quella che aveva conosciuto a 15 anni, nei lunghi fidanzamenti di paese.
Mai come in questi casi, di prove fondamentali per la propria vita e il proprio futuro, può succedere quindi, citando a sproposito Watzlawick, che la soluzione diventi il problema.
Almeno per quelli che, un po’ per non affrontare il problema e un po’ per cercare scorciatoie, si trovano una soluzione-scappatoia che diventa più grave del problema: che so, al lavoro non si decidono né a licenziarsi né a tentare di far bene, finendo per perdere il posto prima ancora di prendere il sussidio di disoccupazione; col dottorato si impegnano poco sognando altri lidi in cui affronteranno gli stessi problemi, in un’altra lingua; in amore fanno il classico chiodo scaccia chiodo con una persona esattamente intercambiabile con quella che li ha mollati, finendo per soffrire pure per questa.
A me sembra che ci troviamo soluzioni a problemi che non esistono, perché il problema ce lo siamo creati noi. Ed è a monte, se stiamo portando avanti le aspettative di una persona che non siamo più noi, trascinando “sogni” che ci hanno imposto a 18 anni o che solo le convenzioni sociali rendono anche nostri. Magari c’è gente che per orgoglio non usa il gruzzoletto che ha da parte per aprirsi un negozio, prendere un rottame di casa e ristrutturarselo da sé, perché “che me la sono presa a fare, sta laurea”.
E se lo dicono perché credono sul serio che la loro strada sia quella, ok.
Se lo fanno per orgoglio, be’, spero considerino l’ipotesi che stanno perdendo il loro tempo. E il fatto di averne già investito troppo, finora, nell’impresa, non è una buona scusa per perderne altro.
I progetti, senza una motivazione dietro, sono feticci che portiamo avanti per calmare l’ansia, compitini per casa che ci siamo assegnati da troppo tempo e senza sapere bene che facevamo.
Allora smettiamo di trovare soluzioni a problemi che non esistono: rischieremmo di scoprire che il problema siamo noi, che non abbiamo il coraggio di guardarci allo specchio e vedere, nel bene e nel male, cosa siamo adesso e cosa vogliamo essere.
Magari, se lo facessimo, scopriremmo di non essere troppo diversi da ciò che potremmo diventare.