Perché facciamo le cose che facciamo? Perché crediamo che quell’operazione vada compiuta quotidianamente, che quell’idea vada condannata a priori, che il progetto che avevamo pianificato debba compiersi così e solo così?
Ho letto due storielle, in proposito.
La prima è di un’autrice americana il cui libro si è perso nei meandri di un trasloco. Seguendo una ricetta di sua nonna, tramandatale da sua madre, toglieva sempre le due estremità a una fetta di carne, prima di cuocerla. Un giorno, incuriosita, chiese a sua madre la ragione di quell’operazione, e scoprì che erano in due a ignorarla. L’autrice allora chiamò la nonna, le pose la fatidica domanda e dall’altro lato del ricevitore, dopo un momento di silenzio, ascoltò: “Tolgo le punte alle costolette perché la mia padella è troppo piccola per contenerle!”.
La seconda storia, che non ricordo perfettamente, credo di averla presa da Jorge Bucay, autore argentino da prendere col contagocce, ma in certi momenti interessante: in un monastero non so dove in Asia, c’era un gatto che infastidiva i monaci durante la meditazione. Allora il maestro decise che, ogni volta che ci si accingesse a meditare, il felino venisse legato. Per la gioia del WWF, la pratica diventò un’abitudine, tanto che la proseguì il successore di quel primo maestro e il gatto venne legato anche quando, ormai vecchio e stanco, non avrebbe mai potuto importunare nessuno. Quando l’animale, infine, morì, il nuovo maestro mandò subito a comprare un altro gatto da legare.
Ok, Mille e una favola è finito. Quello che volevo dire è che spesso le nostre abitudini e convinzioni, i nostri piccoli riti, sono nati in una fase della nostra vita in cui, in effetti, avessero una propria utilità: nessuno vuole della carne cruda sulle punte (specie io che non ne mangio) o un gatto che gli venga a graffiare il posteriore in un momento di relax e abbandono totale (però mandarlo a fare un giretto, invece di legarlo, no?).
In qualche caso, poi, l’abitudine che abbiamo acquisito era anche una falsa risposta al problema: a 12 anni mi votai al pessimismo più assoluto perché, come molti adolescenti, percepivo il contesto in cui vivevo come ostile. Figuratevi quanto fosse dannoso un atteggiamento del genere in momenti che, a non avercelo, avrebbero potuto essere decisamente più felici! Pensiamo anche a tutte quelle persone che rinunciano all’amore perché la loro prima volta è stata deludente, applicando così una giusta precauzione (evitiamo gli stronzi) a un contesto inadeguato (evitiamo tutti).
Se non “aggiorniamo” i nostri rituali, dunque, quei gesti che abbiamo compiuto in momenti in cui ci fossero utili ora oscillano tra il superfluo e il dannoso, con variazioni sul tema.
Non ho problemi a mettere lo stesso vestito a un esame, se mi dà sicurezza o mi ricorda di quando ho superato Diritto Privato a pieni voti. Il problema è scoprirlo sporco in lavatrice e andare all’esame nervosissima, prendendo un brutto voto che mi pare confermare la valenza apotropaica del vestito (vedi sempre profezia che si autoavvera).
Forse è meglio toglierci il prosciutto (meglio la bietola, va’) dagli occhi e renderci conto che non ci sono scappatoie, la vita va affrontata di volta in volta anche quando ci spiazza e siamo soli con le risorse che abbiamo in quel momento.
Dobbiamo solo scegliere quella più adeguata al problema.
Senza barare.