Quando ancora facevo il dottorato, con un amico trapiantato in Germania passavamo le intere giornate collegati dagli archivi delle rispettive città, mentre io sfogliavo gli enormi volumi del Comitato catalano che durante la Grande Guerra mandava gli aiuti ai connazionali che combattevano nelle trincee francesi.
Questi soldati sono ora presentati dagli indipendentisti come eroi dimenticati e dagli anti-indipendentisti come quattro gatti interessati solo a ricevere tabacco. Spesso scrivevano da un ospedale militare. Per ognuno c’è un lungo fascicolo con tutte le sue lettere al comitato, o alla madrina di guerra (una che mandava roba). Io leggevo la data delle lettere, davo una scorsa rapida al testo, scritto spesso in un catalano improbabile per compiacere l’interlocutore, e chiedevo in chat all’amico:
– Secondo te questo se lo mangia, il panettone del ’18?
Naaa, rispondeva invariabilmente lui, che aveva adottato quei soldati teutonici che i miei sembravano schifare tanto (e che ancora dovevano invadere la Rambla in sandali ortopedici!).
Molti se lo mangiavano, il panettone, o la versione catalana non pervenuta. Qualcuno che pareva particolarmente dedito alla causa improvvisamente disertava, allora non potevo saperlo ma ci speravo poco.
Con qualcun altro, invece, succedeva. Nell’ultima pagina del suo fascicolo trovavo una lettera formale e tecnica di un funzionario che ne annunciava in francese il decesso “nei Campi d’Onore“. Quando succedeva qualche mese prima del sospirato panettone, m’incazzavo sul serio.
Perché questi, che lo scrivessero per il tabacco o perché ci credevano davvero, sembravano molto convinti, di star lottando per la libertà dei popoli. Ovviamente, digerito il famoso panettone, sarebbero stati ringraziati con disoccupazione, crisi e un’altra guerra da subire e basta, troppo vecchi per combatterla (quando andava bene).
Questa versione della Grande Guerra, raccontata da un coetaneo su una brandina improvvisata, mi ha fatto riflettere molto sulle illusioni.
Su quando siamo proprio convinti di star facendo la cosa giusta, e intanto ci siamo fatti tutto un disegno preconfezionato su come dovrebbe andare.
“Dalla trincea lotterò per la mia patria, e per la mia famiglia amata”, recitava in francese una cartolina, raffigurante un barbuto cherubino in divisa, con la testa rivolta a una donna che pure sembrava volare dal cielo, il bimbo (per la verità molto ariano) in braccio. Eppure sti soldati diventavano isterici, piangevano, gridavano, tanto che gli alleati inglesi si erano inventati pure un termine per dare una “dignità” virile alla loro malattia: shell-shock. No, stava lì, e gli è esplosa vicino una mina. Mica è stato fare un centinaio di metri sotto il tiro dell’artiglieria nemica senza neanche poter cominciare a sparare (ma se ti giravi ti sparava il tuo superiore). Mica è stato farsi tutta la notte, come Ungaretti, vicino a un compagno morto. Mica è stato ricevere lettere da gente che era in pena per lui e doveva continuare a scrivere vinceremo, maledetti crucchi, invece di veniteme a piglia’, non ce la faccio più.
Davanti a questa follia, le mie piccole morti quotidiane mi sembravano più accettabili, ma meno accettabili gli errori che portavano a quelle.
La presunzione di sapere già come andrà a finire, di essere meglio di qualcun altro perché sì, di non avere mai bisogno di incantare qualcuno con belle parole sperando di spremergli un po’ di tabacco.
È quello che mi succede quando mi faccio aspettative su un lavoro che non viene. Quando per rassicurarmi come straniera mi butto a criticare gli autoctoni. Quando un senzatetto durante il giro di volontariato mi bacia la mano e dice te quiero mucho e non so mai se è perché ci crede o se perché ha bisogno che ci creda io.
E il bisogno, ho imparato nelle giornate in archivo a sfogliare vecchie lettere scritte in catalano strano, il bisogno è il peggiore dei moventi.
Il più efficace, dice qualcuno, l’unico che funzioni.
Il peggiore, ribadisco.
Per quanto sta in noi, non riduciamoci mai a quello.