Da adolescente mi ritrovai di fronte a un cartellone pubblicitario, raffigurava delle donne molto belle e decisamente più grandi di me che mi facevano una boccaccia.
Lo slogan recitava: “Ciao, magre!”.
Ero magretta e risposi: “Cia’!”.
Poi mi chiesi un attimo cosa volesse dirmi quell’immagine. Ok, casa di moda per taglie sopra la 46. Io ero pure un po’ ossessionata con la linea, la questione del fisico mi veniva da mio padre, che ancora oggi fa certe abbuffate a pranzo e poi salta la cena. Con buona pace dell’idea per cui siano sempre le donne a subire modelli di bellezza.
Insomma, mi chiesi che avessi fatto a queste distinte signore per meritarmi una linguaccia e soprattutto come mai mi fossi accorta che misurassero qualche taglia in più rispetto ad altre modelle (ripeto, erano donne molto belle) solo dopo che avessero chiamato ME magra, definendosi dunque implicitamente non-magre. Quindi, volendo, anche grasse.
Insomma, accettavano lo standard di magrezza per contrapporgli una linguaccia e il messaggio “Guarda che bei vestiti possiamo metterci anche noi culone”.
Che poi per me “culona” è stato un grande complimento per molto tempo, visto che un tizio che non era riuscito a “quagliare” con me sentenziava del mio corpo: ” ‘E zizze se l’ha scurdate ‘ncopp’ ‘o tavolo, ‘o culo ‘ncopp’ ‘o cesso”.
Non coglievo la cosa più importante: il messaggio dell’annuncio non era rivolto a me, non ero il “target”. La linguaccia che facevano a me andava alle altre “diversamente magre”, secondo la definizione del cartello, perché si sentissero meglio e corressero a comprare i vestiti di quella casa di moda.
È anche per questo che non credo che le campagne Real Beauty servano a molto. Sia per come sono organizzate che per la loro impostazione. Alcune contrappongono direttamente una bellezza diversa da quella di oggi cercando di imporla come nuovo modello, come questa foto qui:
Ecco quindi la ragazza caruccia in bikini taglia 46 che sorride nella stessa posa, con lo stesso trucco, con la stessa luce delle modelle scheletriche che di solito ammiriamo.
Sorride e sembra chiedere: “Dimmi che sono normale”. E vicino ci vedo un … ANCHE IO, grande come una casa.
Insomma, a me queste campagne, che siano prezzolate o spontanee, non convincono perché fanno esattamente il gioco degli standard che combattono e delle multinazionali che ci guadagnano: riconoscono questi standard come norma e cercano di opporre loro una “norma” più umana. Che a mio parere diventa eccezione nel momento stesso in cui prova a imporsi come norma.
Non prendo sottogamba il problema degli standard “irraggiungibili”, l’ho sentito addosso per molto tempo. E sono contenta di vedere che tra queste “donne reali” che si fotografano le smagliature, la cellulite, qualcuna si senta contenta di esibire il suo corpo vittima di anni di bulimia, di battaglie tristissime condotte a scapito della salute e dell’allegria. Se anche una di loro si sente meglio, la campagna è stata un successo.
Ma, se una ha bisogno di sentirsi dire “vai bene anche tu”, non sarà che non ne è convinta nel profondo?
E poi basta. Basta dettare modelli, che siano taglie minime o cosiddette forti.
“Imponiamo” il nostro nel migliore dei modi: vivendolo.
Ridendoci su, sorridendo col diritto che hanno tutti di farlo, ma solo chi si accorge che è la cosa più naturale del mondo riesce a conquistarsi.
E, credetemi, non uso mai la parola “naturale” a cuor leggero.