Sto facendo cose. Praticamente, proprio. Le sto creando con le mie manine maldestre, poco abituate alle attività pratiche.
Tagliatelle fatte a mano, formaggio casereccio, anche solo una soluzione di acqua e candeggina che non mi faccia strisce sui mobili. Uno smokey eyes senza sbavature. Una gonna confezionata da me (prossimamente su questi schermi).
Una mensola montata quasi dritta (aspettate che compri un trapano e scansatevi!).
Sono proprio contenta, non ero tanto abituata a farlo.
Perché? Perché subivo, come tanta gente, specie tante donne che si sono ritrovate incastrate nella contrapposizione corpo/mente, l’idea che tutto quanto fosse intelletto fosse intrinsecamente superiore.
Penso alle donne che insomma, fin da ragazzine sono state bravine a scuola, che hanno intrapreso un corso di studi “di concetto” ecc., e che fanno fatica a scrollarsi di dosso questa condanna di poter essere delle grandi ragionatrici, ma dover essere negate a fare una torta per essere credibili.
Tanti uomini, ultimamente, si permettono di fare i Carlo Cracco della situazione, specie se c’è una donna a sbattere le uova mentre loro si occupano delle cose interessanti. Io sono genuinamente contenta che una maggiore libertà sociale permetta loro di superare più velocemente problemi di autostima e identità. Ma pare che avvicinarsi ad attività tradizionalmente considerate femminili possa essere fatto da un uomo solo se in grande stile e con un piglio ironico, da “Ok, lo faccio perché sono moderno” (in qualche caso seguito da un “Metti l’olio sul fuoco, Maria, mentre preparo la tempura”). Per una donna, invece, spesso si tratta ancora di “degradarsi”, perché abbiamo creduto che l’unico modo di battere il destino che ci voleva “donnine di casa” sia considerarlo degradante.
Non cadiamo nella trappola. È sbagliato un sistema che a priori decide cosa sia nobile e cosa no, che campa dello sfruttamento di lavoratori manuali intanto che si lascia governare dal pensiero in tutte le sue forme, relegando in un angolo l’intuizione, deridendo la spiritualità come se fosse unicamente appannaggio di confessioni religiose sessiste e omofobe.
Usare le mani è molto bello. Creare le cose, vedersele fiorire davanti. La farina viene accostata spesso alla parola “fiore”, specie nei dialetti e nelle espressioni legate alla gastronomia, e come un fiore sboccia per diventare un piatto di gnocchi, o una torta e quindi una festa.
Non ci riduciamo a un ruolo solo: non è vero che per averne diritto dovremmo essere solo quello.
(Ciò non significa cadere nel ricatto morale di dover fare le perfette casalinghe e le fantastiche lavoratrici fuori casa, attenzione sempre agli estremi che uccidono).
Non mi piacciono le campagne contro le belle raccomandate, la bellezza è odiosa quanto il nepotismo ma fa il doppio dello scandalo, né mi convincono, come già detto, quelle proteste benintenzionate ma a mio avviso pasticcione contro gli standard di bellezza.
Insomma, non caschiamoci. Specie noi donne. Se sappiamo fare una torta non significa che siamo relegate sistematicamente alla sfera della cucina. Che sia una scelta, sempre.
Riappropriamoci di una parte bella e creativa che in qualche modo ci è stato chiesto di abbracciare del tutto o sacrificare per sempre.
Come quando ci è stato ordinato di sacrificare la sessualità alla maternità per diventare vergini e madri, o la cosa umanamente più vicina a questo status.
O ci è stato detto che “le vere donne esibiscono il cervello e non le gambe”, magari da una donna.
No, sul serio. Riprendiamoci le mani. Facciamone ogni buon uso possibile.