Scoperta amara ed esilarante che ho fatto subito dopo essermi commossa per la sua visione.
Perché, vedete, io non lo so da dove nasca la musica salentina, quale divinità fertile e distruttiva ci fosse prima di Santu Paulu te le tarante, ma le dee di un tempo avevano la qualità di portare dentro di sé la vita e la morte.
E quelle che ancora oggi ballano in loro onore, per un momento, le braccia crocifisse in un giro di fazzoletto, ne sono la più grande incarnazione.
Lo è la Dea di cui vi parlo, per esempio. Al contrario di Laura Boccadamo, lei per me non aveva ancora un nome, ma se avessi cercato una scintilla divina tra le fanciulle in fiore dei palchi salentini, il suo volto sarebbe stato tra i primi a venirmi in mente.
Immaginate la mia sorpresa, dunque, nel trovarmela davanti in jeans e scarpe da ginnastica mentre ballava al ritmo di tamburreddi veri, quelli dei suoi compagni in scalo con lei a Barcellona con la nave da crociera su cui facevano un tour.
Ero accorsa a un invito privato del localino barcellonese che li ospitava e per la prima volta mi godevo i bambini che nelle pause disegnavano farfalle sui tamburi, le mani già esperte a svolazzare in tre tempi sulla tela tesa. I loro fratelli maggiori intanto scambiavano battute che in una terra avida di caffè offerti mi sapevano tanto di casa (“Eccoti i filtrini”, “Grazie! Quanto li hai pagati?”, “Manco mi ricordo”).
Quelli me li aspettavo, ma la Dea no. La loro ballerina e coreografa, non so perché, me l’immaginavo lontana.
E vederla così, in jeans e cardigan e accento salentino, preoccupata per la partenza della nave mentre legava (sacrilegio!) la mitica chioma nera, mi ha persuasa definitivamente di una cosa: è una donna.
Esattamente come me, magari più alta e più bella, e più veloce e mostruosamente professionale, nei saltelli aggraziati con cui finge di scansare il compagno di danza che le dà la caccia.
Ma è una donna e come lei siamo tutte.
Tutte, se vogliamo, se ci abbandoniamo abbastanza, anche senza sapere dove mettere i piedi perché tanto vanno da soli, tutte quando balliamo la vita siamo la Dea.
Quando facciamo che il meglio di noi ci possieda senza farci troppe domande o chiederci che penseranno mentre ci guardano.
Se ci abbandoniamo davvero penseranno bene. E allora, con nostro sommo stupore, ci accorgeremo che non ci importa.
Quando fingeremo di scansare un uomo che sembra rincorrerci apposta per permetterci di saltare, girare su noi stesse, contraddirci e tornare all’attacco, fingendo che a condurre sia lui.
Quando metteremo fine alla farsa e volteggeremo ebbre solo della vita che fluisce attraverso di noi.
Quando oseremo fare tutto questo a luci spente, musica finita e musici lasciati a rincorrere la loro nave che li aspetta.
Ho sorriso alla Dea e non le ho detto niente, sapendo di ritrovarla altrove.
Magari allo specchio, un po’ appannata dalla giornata di scrittura, di corsi, di acquisti urgenti per il freddo.
Ma pronta a scattare ancora una volta quando mi deciderò, letteralmente, a cederle il passo.