Che in Italia le cose stiano peggiorando me ne sarei accorta comunque, ma una cosa è leggerlo su un giornale online e una cosa è vederlo sul volto di chi sta qui da poco.
Mentre scrivo sono sette anni che vivo a Barcellona. Il mio ragazzo, invece, ha compiuto da poco un anno di catalanità e digerisce la cosa molto peggio di me.
Ultimamente due ragazze italiane, sposate qui con un figlio appena nato, hanno dovuto avviare una battaglia legale perché il bambino venga riconosciuto a tutti gli effetti per la legge del nostro paese. Ci sono riuscite? Ni. Però intanto gli italiani brava gente ci hanno fatto un sacco di battute. La più gettonata: un bambino con due mamme, poverino, gli chiederanno entrambe se ha mangiato.
Gli episodi di razzismo in Italia si susseguono mentre i miei amici che denunciano la cosa si sentono rispondere su facebook dal compagno delle elementari: “Vivi troppo tempo fuori, ci stanno colonizzando”. Io per fortuna avevo compagni intelligenti, ma risponderei che ho vissuto tre anni nel multietnico Raval, e sono stati i più belli a Barcellona. Mi sentirei chiamare buonista, che, per una volta sono d’accordo col relativo meme, di questi tempi significa “non fascio”.
Qui non è affatto tutto rose e fiori, ieri la fruttivendola cinese mi ha chiesto di dare la precedenza a una cliente rumena (che mi ha ringraziato in italiano) per poi confessarmi candidamente di averlo fatto perché “altrimenti quella rubava”.
Una napoletana e una cinese a parlare di malavita, con tutte le stronzate che già dicono contro la nostra gggente: è una barzelletta?
No, non è tutto rose e fiori. Ma noto una cosa: qua la differenza non fa tanta paura come in Italia.
Sarà che il loro dittatore è morto da soli quarant’anni, sarà che ci sono questioni nazionali molto più urgenti e sentite delle nostre, ma qui la gente è abituata a scendere in piazza, molto più di noi, a protestare quando le cose vanno male.
Per questo a settembre mi sembrava strano vedere tutti gli sfottò dedicati a una diciottenne con una fascia di miss che trovo spaventosamente antiquata, intanto che ammazzano un immigrato per aver rubato un’anguria e un tizio che si dice di sinistra fa le stesse cose di sempre, ma con l’hashtag davanti.
A proposito di hashtag, non capisco il senso dell’umorismo all’insegna del #jesuischarlie. I posti per Zelig sono limitati e allora tutti su Internet a improvvisarsi fini umoristi, a dire “escile” a una modella dal nome impronunciabile, a ironizzare su un gruppo di rocchettare con l’hiqab, e se resti perplessa è che non capisci quest’umorismo così sottile.
Non sarà che sono rozzi loro e fanno ridere chi crede di non poter fare altro? Non sarà che si diverte chi sa che non avrà mai un lavoro fisso né pensione né uno straccio di simulacro da maschio alfa (spesso sono uomini) e invece di scendere in piazza fa il cacciatore di like? Perché il Non ci resta che ridere sembra un triste imperativo almeno sui social.
Io posso ringraziare l’identità sovranazionale che mi è stata regalata dall’Erasmus, testimoniare che i nostri amici omosessuali con figli sono più rompicazzo della più folkloristica mamma italiana quando si tratta di mettere il cappottino o proibire i cibi grassi ai fortunati marmocchi (“Nascondete le patatine!”). Posso giurare che qui le “mamme italiane”, stereotipate perfino dagli ottimi Jackal, possono liberarsi delle pressioni familiari di casa nostra e lasciar scorrazzare i figli sotto la pioggia. Con la speranza, giurin giurello, che poi li asciughi papà.
Il fascismo si cura leggendo e il razzismo viaggiando, diceva un grande scrittore spagnolo.
Che si parta o che si resti, forse dovremmo cominciare a leggere molto e fidarci di chi già ha viaggiato troppo, per vincere la nostra paura di guardarci allo specchio.
Ti voglio bene.
:*