Magritte-Cloud-Body Il dottorando del mio professore ha tenuto una piccola presentazione della sua tesi, che ancora deve discutere, incentrata su Orwell e la mancanza di un senso nella vita.

Non conosco la storia personale del tesista, ma credo che sfiori o superi di poco la quarantina. Magari è di quei catalani che dopo la laurea in qualche disciplina umanistica hanno trovato subito un lavoro, in altri tempi, sposandosi e rimandando all’infinito la difficile e poco remunerativa operazione di finire il dottorato. Non si tratta, dunque, di uno studente nel fiore degli anni, che creda ancora di trovare lavoro dopo l’università, ma di un uomo navigato e ironicamente disincantato. Infatti esordisce con una critica dei libri di self-help, colpevoli “di presentare la vita come non è”.

Quindi, chiarisce, “piuttosto che farsi illusioni su come NON sia la nostra esistenza, meglio essere onesti sulla sua reale natura”.

E com’è, l’esistenza? Nera, ovviamente. Peggio, insulsa. Senza significato. “Non sono pessimista, sono realista”, dicono i pessimisti.

Fortuna, conclude il tesista dopo un’oretta di disperazione, che Orwell nelle sue opere manifesti sia questa mancanza sia l’impressione che un senso ci sia eccome, e risieda spesso nella bellezza, nella natura, in ciò che di buono fanno gli esseri umani.

Giro di domande, prendo la parola:

– Sono contenta di questa tua conclusione, perché se la vita non ha senso, non ha senso. Non vedo perché debba per forza essere negativa. Se non ha senso, sono vere entrambe le interpretazioni, il bicchiere è sia mezzo pieno che mezzo vuoto, banalmente sta a noi decidere come vederlo.

Cioè, roba che alla discussione la più distratta assistente finita in commissione per beghe accademiche potrebbe fargli notare.

Allora lui:

– Mi stai dicendo che in realtà un atteggiamento ottimista non va di moda quanto uno sguardo distaccato, e allora si scambia la mancanza di senso per negatività?

Rispondo di sì. Lui ci pensa un attimo e replica:

– Non lo so. Sarò onesto. Non so come rispondere alle tue riflessioni.

Eccallà. La retorica del non lo so. Facile scappatoia per una generazione che più che non sapere, a mio avviso, non vuole sapere.

Proprio durante questo e altri corsi che ho ripreso all’università si ricordava che i protagonisti dei romanzi moderni sono uomini senza qualità, pincopallini qualunque, perché la mancanza di valori fissi non consente loro di avere un’epica.

Ebbene, io credo che lasci il tempo che trova, questa facile scusa ormai centenaria con cui eludiamo la capacità di prendere qualsiasi decisione.

Perché (e non mi riferisco al tesista, ma alla nostra generazione) finché non sai cosa vuoi fare da grande, liberissimo. Ma il mio sospetto è che tu non voglia sapere. Che non voglia prenderti la responsabilità di sbagliare, di sacrificare il tuo sogno infantile a una scrivania che perderai comunque per la crisi o di sposarti e figliare per affrontare un divorzio. Allora, che fai? Non lo sai.

Per salvarti dal dolore del fallimento.

E intanto che ti salvi fallisci un po’ ogni giorno.

Attenti al Signor Nonlosò, non diventatelo voi, un signore o una signora Nonlosò.

L’ignoranza è un sacrosanto diritto degli esseri umani, specie quando non sanno davvero. Persistere in quella per paura di sapere è una responsabilità di cui dovremmo essere, mo’ ci vuole, più consapevoli.

Ma sono 100 anni che “i nostri eroi” falliscono senza neanche provarci, in nome di una presunta impotenza che è diventata un feticcio della nostra cultura. Mi sa che è una versione deformata della nostra impossibilità di controllare del tutto il destino, come se questo ci impedisse di scegliere anche quel poco che possiamo.

Magari quelle poche scelte che abbiamo a disposizione ci separeranno dalla presentazione di una tesi di cui non sappiamo neanche l’argomento, specie quando abbiamo chiuso il libro e dovremo tornare alla nostra vita.

Ormai sappiamo tutti di non sapere.

Proviamo anche a conoscere noi stessi.

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