Avete presente l’articolo di Lata Mani e Ruth Frankenberg sulla teoria postcoloniale? Ovvio che no, perché dovreste? Sta roba la studio solo io!
Ma se lo trovate in giro a meno di 33 euro (è che rosico, ce l’ho fotocopiato da qualche parte dai tempi del master inglese), dategli un’occhiata. Dice che in qualsiasi discorso sociale si incrociano diversi assi: quello etnico, quello di genere, quello economico…
Insomma, c’è una molteplicità di prospettive, in ogni analisi sociale che possiamo fare. E il discorso vrenzole sembra comprenderle tutte.
Nel disprezzo di questa figura terminologicamente recente, ma vecchia come il cucco (dona, de classe baixa i nació oprimida, avrebbe detto una poetessa catalana), ci mettiamo tutto quello che non vogliamo essere.
Jo songo ‘o specchio addo’ nun te vulisse maje guarda’, cantano gli Almamegretta in una canzone che secondo i cliché la vrenzola non ascolterebbe, perché lei sente solo Alessio (“Ancora noi!”) e Rosario Miraggio.
Però mi sembra perfetta per le vrenzole, almeno a giudicare dalle pagine che le sfottono.
Per esempio questa, che seguo volentieri per i deliranti strascini virtuali, ma che ogni tanto pubblica anche foto di signore piuttosto carnose, che circolano in leggings leopardati e capelli color cioccolato bianco, con evidente ricrescita corvina.
Credo che, più delle immagini pubblicate per sfottere un essere umano, la parte più interessante della pagina siano i commenti. Non quelli delle vittime che minacciano denunce, spalleggiate da amiche convocate apposta.
Mi riferisco alle persone che le sfottono. Specie le donne. Gli uomini sono poco originali, in genere: qualche disgustoso insulto sessista sulla scarsa moralità o avvenenza della fotografata, che nasconde in tanti casi una malcelata fascinazione.
Le donne, in particolare, nel criticare offrono il più affascinante elenco di quanto sia becero, ipocrita, noioso, conformista, privo di fantasia, il nostro ceto medio.
Ci sono due tipologie di commenti che meriterebbero intere tesi di antropologia culturale.
Primo tipo:
- “Ma non si è depilata?!” (epica la risposta di una vittima, che si immortalò dall’estetista dopo l’oltraggio collettivo).
- “Ma non si vergogna, questo, ad andare vestito come una donna?”.
- “Come può non coprirsi il sedere, grassa com’è? Io non mi permetterei mai di fare altrettanto”.
- Le già citate osservazioni sulla moralità delle fotografate, ree di scoprire troppo delle loro grazie.
Ma i migliori commenti sono quelli del secondo tipo. Si riassumono in 4 parole: “Questo non è vrenzolo”. Riferiti a vestiti animalier con inserti arcobaleno. Vuol dire che il re è nudo, e questo ceto medio perbenista e moraleggiante è sempre più vrenzolo.
Da quando Cavalli ha sdoganato la tamarra nazionale, pure la vrenzola ha ottime possibilità!
E allora questi criticoni della domenica vanno in giro anche loro con variopinti abiti estivi, con l’animalier spinto… Ma fatto da loro, va bene. Sdoganato nel quartiere sbagliato, magari a prezzo di bancarella, è vrenzolo.
Da qualche parte Bourdieu sorride, con le sue politiche del gusto che decidono cosa sia di classe e cosa no.
Da qualche altra parte, con un paternalismo che non risparmia neanche me, provo fascinazione per questo mondo di ciucciotti falsi griffati, copricitofoni ricamati a mano e sgrammaticate minacce di strascini (d’altronde la loro lingua ufficiale non la possono scrivere perché è deprezzata da oltre 150 anni, e le criticone hanno assimilato bene la consegna di odiarla).
Insomma, come le “cugine” spagnole choni, le cosiddette vrenzole mi fanno capire tanto dell’ipocrisia che costruisce la nostra società. Una società nata su una storia lacerata, che porta a paradossi ed esagerazioni. La prima tra tutte è quella di disprezzare la propria cultura o inventarsene una versione “perbene”, in cui decidiamo chi possa entrare e chi debba restare fuori d’ ‘a cartulina.
Non so, di fronte a questo ho come l’impressione che le vrenzole abbiano una funzione sociale. Ci mettono davanti uno specchio che rivela tutto quello che fingiamo di non essere, e invece siamo.
Siamo talmente spaventati da cosa penseranno di noi, come ci giudicheranno ecc., che ci dimentichiamo perfino di fregarcene.