Da piccola avevo i capelli biondi, del “biondo cenere” che per qualche scrittore più a Nord del Brennero è un colore incerto che va scurendosi col tempo.
Incerta sarà la nonna dello scrittore, evidente estimatore del giallo paglierino di qualche bella nordica. Ma è vero che il biondo cenere, con gli anni, si confonde facile con il castano.
In effetti, in tempi recenti, una professoressa di francese definiva senza troppi complimenti i miei capelli come “châtain”.
Il che ammetto che faccia un po’ strano, dopo essere stata ufficialmente “biondina” per i miei primi 20 anni. Ma per dichiararmi castana ci vorrebbe, appunto, una discreta componente di marrone, che le mie chiome non hanno.
A Barcellona mi rivolsi a una parrucchiera di queste catene infami, dove cercano sempre di venderti un balsamo miracoloso mentre ti fanno lo shampoo. Chiesi se ci fosse un metodo (anche pagando il balsamo, vabbuo’?) per riavere qualcosa di simile al “rubio de la infancia”.
Forse non avrei dovuto fidarmi di una con daltoniche chiome bicolore e grossi orecchini a cerchio, ma tant’è: quando mi disse che l’unica fosse colorarli, ci credetti ed eseguii.
La prima volta ebbi fortuna, con un discreto effetto naturale, ma le sedute successive andarono degenerando, finché una tipa decisamente vrenzola, nello scartarmi le mèches dalla stagnola, non dichiarò per non farsi picchiare:
– Te le ho fatte volontariamente più chiare, eh? Stai meglio così.
Dal momento in cui uscii dal negozio, cominciarono a chiamarmi Shakira.
Quando da Shakira passai a Donna Summer, stavolta grazie a un italiano “costoso”, non mi restò che correre in un negozietto con qualche pretesa nel cuore del Raval hipster, di cui ho già parlato qua. Mi sentii dire che avevo una macedonia in testa e l’unica era, udite udite, tingermi i capelli di un colore simile a quello naturale, in un gioco di specchi senza fine.
Allora ho ripensato a uno di quei maestri del capello delle parti mie, uno che si atteggia un po’ nel suo salone di Piazza dei Martiri e che mi aveva avvertito: hai dei bei capelli, non ci fare mai niente. Consiglio ripetutomi da una ragazza nella sala d’aspetto della stazione di Napoli, che sperava che esistesse una formula chimica targata L’Oréal per riprodurre l’opera della natura.
Ma no, io inseguivo più la mia definizione di “bionda” che la reale evoluzione dei miei capelli. Non succede solo a me: pensate ai drogati di lavoro che non accettano la pensione, a chi s’identifica con la propria bellezza anche quando l’ha ormai persa, alle tettone che si rifanno il seno quando glielo svuota lo svezzamento. Siamo tutti intenti a catturare la definizione di ciò che siamo, anche quando non lo siamo più.
Se è una fissazione, è triste, perché non accettiamo che l’unica cosa stabile sia il cambiamento. Se è un gioco, in fondo non c’è niente di male a far sì che (come diceva uno in un caso più estremo) il mio corpo mi rassomigli.
Be’, io non sono una talebana della naturalità, faccio Studi di Genere!
Così è stato divertente constatare che la “soluzione” a questo problema da due soldi mi sia venuta dal mio peculiarissimo signor padre. Che si è presentato a Barcellona, l’estate scorsa, con un potpourri di ciocche (le poche che gli restano) che viravano dal biancolatte all’oro rosso.
– Ma come hai fatto? – gli ho chiesto.
Prima di ripartire, mi ha lasciato una strana boccetta sul lavandino e mi ha detto:
– Un regalo per te.
Era una composizione piuttosto semplice: un misurino di camomilla Schultz, lozione, in 200 millilitri d’acqua.
La parte più importante della ricetta era la costanza. E infatti ogni santo giorno me la sono nebulizzata due secondi sui capelli, fino ad oggi. Due secondi sono un prezzo accettabile da pagare, per un capriccio.
Il primo risultato è stato uno schiarimento che aveva dell’iridescente, o così mi giuravano da casa, via cam. Come fai a fidarti di tuo padre, rideva mamma, senza pensarlo davvero.
E invece adesso mi sento dire, quando torno in paese: “Ma sei tu? Non ti riconoscevo, bionda”. Con una differenza con le tinture: quelle il colore te l’inventano, invece le mie mèches naturali si combinano “artisticamente” con le dosi d’acqua giallina che le irrorano.
Insomma, sta storia che Impossible is nothing è un po’ sopravvalutata, diciamo, ma a volte ci arrendiamo subito. Per le cazzate. Figuriamoci per le cose importanti!
Ecco, adesso mi piacerebbe fare lo stesso con un’altra cosa che avevo nell’infanzia: le tette! Spuntatemi a 9 anni per un ciclo precoce e rimaste più o meno tali e quali ad allora. Senza arrivare a imbottirmele di silicone, che Barcellona mi ha insegnato a star comoda (letteralmente) nel mio corpicino snodabile, a prova di metro nell’ora di punta.
Su questa cosa, però, mio padre, medico ortodosso che riderebbe di massaggi cinesi e integratori, proprio non mi può aiutare.