Per quelle coincidenze che fanno bene al cuore, ho rivisto la “mia” casa due anni dopo averla lasciata.
Scrivo mia tra virgolette perché l’ho sempre sentita estranea, dopo qualche mese tra le sue pareti lunghe e tetre l’ho sbolognata a un ragazzo che l’ha fatta davvero sua, prendendosene cura.
Due anni dopo ammiro le piante, nelle stanze in cui neanche io riuscivo a coltivarmi.
Non è cambiata l’atmosfera un po’ triste, da vecchietto che aspetta.
Restano le vicine cresciute lì, incattivite dal non saper pronunciare il mio cognome straniero.
Ma due anni dopo è cambiato tanto, quasi tutto.
Anch’io. Per esempio, ora consegno la tesi che ad ascoltare il famoso cuore avrei scritto 10 anni fa. Portare 10 anni di ritardo sulle tabelle di marcia “cardiache” non è uno scherzo. Ma tengo botta, ho pensato impigliandomi tra i rampicanti del corridoio che a me era sembrato una prigione.
Eccomi determinata a tenermi quello che mi serve, a separarmi da quello che non funziona più.
E a non dedicare mai più il giorno dopo il trasloco (come due anni fa) a una festa non mia che non verrà neanche apprezzata: l’emblema del mio antico fare cose di cui non ho bisogno, per gente che non le vuole.
Questo, a prescindere, è passato.
Mi spiace per il ficus di quella vecchia casa, enorme e mai travasato, le radici accomodate su una ringhiera, come rampicanti.
Non potevo tenerlo. Quello che invece ho portato via era appena nato, un regalo dell’unica festa celebrata tra quelle pareti ingiallite.
Era un germoglio in un vasetto troppo piccolo, ora cresce.
E sta bene dove sta.