Eccomi qua. Mi aggiro per le stanze, cercando di riconoscerle. Camere in affitto vs camere dell’infanzia, lasciate da poche ore insieme alla famiglia radunata in corridoio per abbracciarmi.
Scendendo all’una di notte dalla navetta dell’aeroporto a Plaça Espanya, lo zaino che mi ballava sulla schiena, ho stretto il braccio al mio ragazzo:
– Siamo tornati a casa.
Lui ha guardato i gradoni bui di Montjuïc, odorosi di un’erba che non avvertivo (ho un raffreddore da cavallo) e ha specificato:
– Siamo tornati a casa, da casa.
È il paradosso nostro, e dei tanti come noi.
Che in aereo ascoltano come noi gli scherzi facili dei connazionali che volano a Barcellona per turismo, e possono ancora fare giochi di parole sulle indicazioni che non capiscono: “Estamos llegando a nuestro destino” diventa “È l’ora del nostro destino”, che rende ancora più inquietante un atterraggio che noi non siamo più tentati di applaudire, visto che viaggiamo spesso e atterriamo sempre.
E allora, davanti a questi ragazzi che chiamano vacanza quello che per noi è vita quotidiana, con la differenza che per noi non è tutta mojitos e fiesta en la playa, davanti a loro sorgono domande esistenziali tipo:
– Ti ricordi quando eravamo italiani?
Intendiamo quegli italiani, quelli che non devono restare, solo godersi questa cartolina turistica e ripartire, al massimo scrivere sulla pagina Gli italiani a Barcellona per chiedere “info sul lavoro lì”, subito bersagliati dagli insulti di chi è restato e lotta ogni giorno con la precarietà.
Già, perché restare non è che ti migliora la vita, o non è così ovvio. È il paradosso che cito sempre del libro di Claudia Cucchiarato, Vivo altrove: chi parte non è che si mette a posto, eh, anzi. Magari non vive coi suoi a 30 anni, ma spesso condivide con due semisconosciuti un appartamento che mantiene lavorando in un call center, con l’unico lusso di non prendersi Erasmus in casa: troppo rumorosi, troppo sporchi, troppo entusiasti per chi ha avuto la malaugurata idea di trasformare in casa il teatro di una vacanza sempre più lontana nel tempo.
Ma chi resta perché lo sa, non corre questo rischio. Parlo di chi sa che tornerà sempre a casa, da casa. Perché ha imparato a caricarsi nello zaino tutto quello che gli serve e ci starà bene dappertutto, e ha smesso di chiedersi “come l’accoglierà questo nuovo posto”, capendo che i posti non accolgono, gli vai incontro tu e vedi se ti ci puoi adattare.
Io per la verità ho trovato il ripostiglio allagato, segno che questa casa comincia a non accogliere me come un tempo. Che la padrona di casa sarà anche gentile, ma lotta da anni con la vecchiaia di un piso ereditato forse da un padre coi calli alle mani e poca pazienza con le autorizzazioni, come tanti padri costruttori del mio “nuovo” quartiere.
Le macerie della mia vecchia vita, vecchia di una settimana fa, mi accolgono tali e quali a come mi hanno cacciata: i soldi rovesciati a terra nella fretta di trovare il caricabatterie, la finestra che incornicia una fetta di tetti e di mare, solcati dall’occasionale sventolio della busta appesa ai fili del bucato, per spaventare i piccioni. Oggi sembra svolazzare al ritmo dei pianti del solito neonato, che purtroppo no, in questi sette giorni d’assenza non si è svezzato, laureato e sposato, come auspicavo (ho scoperto che svezzarsi esiste, come riflessivo: vuol dire togliersi un vizio, e questo l’abitudine di piangere a tutte le ore proprio non l’abbandona).
Il mortaio è ancora nella bustina di cellophane, sul tavolo in soggiorno: l’avevo portato alla lezione pre-vacanze al mio alunno più bravo, un americano volenteroso che studiava italiano per comunicare con su pareja.
Il giorno prima di partire mi avevano mandato le foto della pasta fatta col pesto ricavato dalla lezione, il risultato più concreto che abbia mai ottenuto insegnando italiano.
Si sono lasciati mentre ero via, lui mi ha messaggiato per “sospendere” le lezioni, almeno finché non trova casa.
È quello che succede a parlare una lingua stupenda, ma pleonastica, nell’economia mondiale.
Speriamo riprenda. È proprio bravo.