Siccome il primo settembre pare che dobbiamo infilarci un cappello di lana, iscriverci in palestra e postare i Green Day, ieri ho deciso che la mia passeggiata serale sarebbe stata dedicata a un barrio più autunnale: Sants.
È un quartiere bello intenso, non del tutto ucciso dall’affluenza di turisti intorno alla sua stazione. Mi sa di progetti che durano, anche all’imbrunire dell’ultim’ora legale. Roba che i tavolini in piazza, in certi mesi, li ritirano anche prima delle 10, ma poi intorno alla ferrovia ci sono sempre ristorantini aperti (raccomandiamo il palestinese), per chi cerca a tutti i costi la Barcellona da bere.
Questo è stato il mio saluto all’estate, sudato e luminoso come ci si potrebbe aspettare dal primo settembre se non fossero tutti intenti a farne l’anticamera dell’inverno.
È che io sono di nuovo in una di quelle fasi in cui non si capisce quale sarà il mio destino, da qui a un mese. E non per colpa mia, ammesso sia una colpa. Alunni che cambiano città, scuole che aprono, scuole che chiudono, università non pervenute, centri di formazione che si rivelano case carute. E l’incognita di dove abitare, quella sempre (mentre scrivo, due muratori cercano di arginarmi la pioggia in ripostiglio). Barcellona, cercai di spiegare a suo tempo in un romanzo che nessuno mi pubblica, fa questo: dà e toglie, tutto in una volta. E lo fa veloce, prima che una se ne accorga.
Allora, mentre tutti formulano i loro buoni propositi, il mio sarà quello di saper scivolare.
Verbo che può evocare il classico triplo salto carpiato in pubblico da buccia di banana o, nel mio caso, il turno per usare lo scivolo, ai giardinetti di fronte scuola. Una volta che il nonno difendeva pacatamente il mio diritto di precedenza con concorrenti di 5 anni, una bambina spiegò all’amica:
– Aspetta, deve andare prima Maria.
– E chi è? – s’informò l’altra.
– Questa stronza – precisò la prima, indicandomi.
Adesso, nessuno mi aveva comunicato che la vita fosse piena di episodi come questo, con diritti concessi a denti stretti e insulti un po’ a caso. Quindi, ci rimasi malissimo. Ma l’idea di lasciarsi cadere con fiducia, tanto prima o poi i miei piedi toccheranno terra, mi è rimasta.
Mi chiedo dove siano, ora, queste concittadine ormai donne, e se sullo scivolo, come nelle migliori commedie romantiche e canzoni di Doris Day, ci vadano i loro figli.
La mia, di figlia, non c’è ancora, non so se ci sarà, mi piacerebbe. Mi rendo conto che non sento l’esigenza di averla, solo il desiderio. Parte del mio scivolare comprende questo: dove approdo approdo, va bene. Ne ho già parlato. Quando cominciamo a star bene con noi stessi, le scelte di vita vanno bene tutte. Non dico che si equivalgano, che non ce ne siano di migliori di altre. Solo che vanno bene. Non esiste un solo lavoro ideale o il posto perfetto in cui vivere o un solo “principe azzurro”, ma più si è in contatto coi propri desideri e meglio si sceglie.
Per questo, riguardo alla polemica sul Fertility Day, senza parlare come in questo articolo di “una retorica di auto-vittimizzazione economica che non aiuta l’economia del desiderio”, credo sia un peccato fermarci a un pur comprensibile e legittimo “Non posso”.
Perché se fosse proprio impossibile lo sarebbe anche per Abdul, che scarica sacchi di basmati e aveva preso in affitto un mio appartamento di transito, nello stabile in cui l’avevo conosciuto. Cinquanta mq, due stanze, cucina di Barbie e bagno a L.
– E in quanti ci vivete? – gli avevo chiesto. Io lo dividevo con un coinquilino emiliano, quando venivano ospiti era un casino e dormivo nel divano letto all’ingresso.
– A casa siamo in 8 – aveva risposto Abdul.
Ah, ma lui e la moglie e i due figlioletti occupavano la stessa stanza. Quella piccola senza balcone. No, vabbe’.
A Fahim, dell’ultimo piano, era andata meglio: era riuscito a vivere negli stessi metri quadri, ma “solo in 5”, tanto il figliastro non sempre rimaneva con loro. Quando gli è nata una bambina ormai non vendeva più mobili raccolti dalla spazzatura ed è riuscito a traslocare.
Anche queste sono scelte, “libere” quanto quelle di chi crede che per figliare ci sia bisogno di poter togliere ai figli ogni sfizio, quanto quelle di chi proibisce il velo in nome della democrazia (!) e si crede libero o libera di depilarsi o truccarsi o portare un reggiseno. Quanto gli usi e costumi che cambiano a seconda della data e del luogo di nascita.
Infatti non bisogna essere pakistani o nordici dal welfare di ferro per potere anche non potendo: la strada da fare è lunga, ma perfino da queste parti, o entro questi confini, le famiglie si organizzano, istituiscono asili solidali (anche nei centri sociali), scoprono il coworking.
Io sono una fanatica delle scelte, proprio perché so che sono più limitate di quanto crediamo. Quello che non vorrei succedesse, e non solo coi figli, è che “Non posso” diventasse un modo di non chiedersi cosa vogliamo.
Se non vogliamo figli non dev’esserci pressione sociale che tenga. Non abbiamo bisogno di ricordare quanto sia precario il nostro lavoro. Se ne vogliamo, nessuno nega che in certe situazioni può essere proprio proibitivo, che i contratti di lavoro durino meno di una gravidanza o che non tutti i nonni vogliano/possano fare i baby-sitter. Solo che a volte confondiamo il benessere dei figli con la capacità di dar loro “tutto quello che vogliono”. Quello di cui hanno bisogno, per quanto impegnativo, costa molto meno.
Ed è interessante per me questa polemica venuta fuori proprio alla fine di un’estate che è iniziata piuttosto chiara, in quanto a progetti e appuntamenti autunnali, e che adesso se li sta portando tutti via, come i mulinelli di sabbia attraversati anche quest’anno una volta sola, nell’unica giornata di mare.
Ma non ne disdegno altre. Uno dei pochi vantaggi di restare senza lavoro (per il momento) è che un’ora per la spiaggia si trova sempre. Perfino le mie compagne con orari di ufficio e contratti più o meno solidi si fanno un punto d’onore di approfittare degli ultimi tramonti in spiaggia, quando smontano.
Chissà se vogliono avere figli, loro.
Creare delle necessità è uno dei trucchi che ci inchiodano a vite non scelte.