Il bello di stare a Barcellona è che le mie vite ritornano.
Di solito lo fanno ogni estate, ma non sempre aspettano l’aumento del biglietto, o il Primavera Sound, per incrociare le mie faccende di adesso e chiedermi dov’eravamo rimasti. Più che altro, dov’ero rimasta io.
Mi avevano lasciata entusiasta nel Raval, e adesso faccio loro da guida nel “nuovo” quartiere. Mi ricordavano litofaga (cioè, “magnavo pure le pietre”) e mi sorprendono a rimpinzarmi di verdurine. Dopo aver sbalordito con questi dettagli gli amici che popolavano le mie vite passate (giacché sono loro, ovviamente, a ritornare per un po’, le vite passate mica lo fanno), li lascio ai loro treni, o ai biglietti d’aereo da stampare, e me ne torno al mio presente. Senza rimpianti.
O quasi.
Perché a volte ritornano vite che abbiamo bistrattato, trascurato, lasciato andare.
Non che la cosa conti più: anche noi, col tempo, diventiamo aneddoti nelle vite altrui. Com’è giusto che sia.
Ma quando ci prendiamo un caffè, con queste vite abbandonate insieme alla terra in cui siamo nati, o perse per strada in un momento difficile, a volte siamo presi dall’impossibile impulso di tornare indietro. Di cambiare le cose, di applicare a ritroso la placidità che intanto, magari, abbiamo strappato centimetro a centimetro alla nostra antica incapacità di vivere.
Ovviamente non possiamo. Possiamo andarci vicini. Con la compassione, col perdono reciproco e, soprattutto, con la voglia di fare bene qui e ora.
Ma questo posso dire: c’è chi merita il nostro rimorso.
E la peggior vendetta della vita, presente e passata, è trasformarlo in rimpianto.