Sono stati i dieci giorni più lunghi della mia vita, dopo quelli con la varicella e le vacanze senza TV, mentre su Odeon ridavano tutto Ransie la Strega.

Sono stati giorni in cui ho sentito gente dall’Italia dire che i catalani erano come i leghisti, e intanto passavo ogni mattina accanto ai manifestini pro-referendum in arabo e in urdu. In questo pasticcio di referendum non potevamo votare né io né, mettiamo, uno di Valencia, ma almeno una pakistana con cittadinanza spagnola sì.

Sono state sere passate a spiegare che non occorre essere del Sud, per vivere delle forti disuguaglianze sociali. Qui gli antisistema detestano i liberali catalani quanto quelli spagnoli. Li credevo ingenui, pensavo che rischiassero la vita per dei politici indegni che li stavano solo usando per rosicchiare qualche vantaggio. Mi sono resa conto invece che i movimenti dal basso hanno un’altra agenda, confusa e sgangherata, magari: ma ridurre tutto a una manipolazione significa non rispettare la loro realtà. E non devono chiedere scusa a nessuno per essere nati in una regione ricca e “antipatica” (sarebbe anche interessante confrontare i due razzismi, quello anticatalano è molto forte).

Sono stati giorni di dibattito coi compagni d’associazione: tutti d’accordo nel condannare la repressione, ma ciascuno voleva farlo in modo diverso. Ne siamo usciti con gli animi accesi e qualche abbraccio postumo, convinti di averle viste tutte. Finché non ci siamo sentiti chiedere “che ci voleva a dire qualcosa”.

Non c’è stato il tempo di riderci su, che già ero in giro con italiani venuti apposta per capire cosa stesse accadendo, confusi davanti alla loro prima cassolada. Ventenni che, complice forse il buio che ormai cala presto, mi chiedevano “cosa volessi fare dopo il dottorato”. Già dato, avrei voluto rispondere, ho fatto quello che farete voi: lavoretti precari senza possibilità di sapere quando finirà. Mi è piaciuto il durum felafel mangiato discutendo sui gradini della piazza nel mio vecchio Raval, e poi il saluto frettoloso: “Non fate i bravi, ma state attenti”.

E mi è piaciuto un altro saluto strano, sulla soglia di casa, alle quattro del mattino. Io in pigiama e lui pronto ad andare al seggio, il primo dei tanti che gli toccava ispezionare. Il fatto che uno alle quattro del mattino mi dica “Ti voglio bene”, a mo’ di promemoria urgente, rende l’idea che qualcosa sta accadendo, qualcosa accadrà. E che lui ci sta andando incontro insonne ma determinato, mentre io torno a dormire.

Non per molto, però. Pur non condividendo la causa per cui si votasse, un giro sotto l’ombrello l’ho fatto, per vedere altri ombrelli disposti in file più o meno ordinate, a pochi metri dai berretti zuppi, e fermi, dei mossos.

Ho sentito scrutatori gridare che non si respirava dalla folla che c’era, invitare tutti a tenersi in disparte. Ho visto ombrelli fradici poggiati ai pilastri di un teatro occupato, accanto a rose di carta.

Quando sono tornata a casa io, sono arrivati i nazionali. Ce l’ho dai tempi degli indignados, questo talento vigliacco di riuscire ad andarmene mezz’ora prima. Sono arrivati un po’ dappertutto, a macchia d’olio.

Mentre scrivo questo post, il WhatsApp funziona bene, l’indipendentista mattiniero mi manda messaggi tranquilli dai seggi. Anche mio padre si è convinto che i mossos e gli inviati di Rajoy non verranno troppo ai ferri corti, e scende la pioggia sulle prime ferite dei caricati in giro. Lontani. Sempre troppi.

Preferisco fermarmi qui, in questo momento perfetto in cui non so ancora niente, so che non ho il potere di decidere niente.

Ma ammiro chi, nonostante tutto, ha preteso di decidere, con tanta forza che, per un lungo istante, l’ha fatto credere anche a me.

 

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