Risultati immagini per cucchiarella Avete presente quando mammà prendeva la cucchiarella “per il nostro bene”? Ecco che la storia si ripete, come farsa ovviamente, nell’età adulta.

Ho sentito diversi compaesani affermare che se non studiamo a scuola le nostre lingue regionali (lasciamo perdere la disputa lingua-dialetto), è per il bene delle lingue stesse, perché non vengano cristallizzate in delle forme fisse.

Capisco il dubbio: un’amica sarda affermava che alcuni bambini algheresi, a scuola, stessero studiando il catalano standard, non quello locale. Commentava quindi: “Vediamo se le istituzioni riescono a far scomparire quello che si è mantenuto intatto per secoli”. Rischi simili, però, mi sembrano più correlati a una metodologia didattica che a una reale salvaguardia del “dialetto”: non credo proprio che lo si preservi di più non insegnandolo, per rispettarne la ricchezza. Se obietti che si sta perdendo proprio per la sua assimilazione all’italiano, rispondono che “è la naturale deriva di una lingua”. Spero che valga anche per gli anglicismi e i prestiti vari che fanno gridare allo scandalo tanti amanti dell’italiano!

Quest’idea della lingua “del popolo” (un popolo odiato e amato, ma sempre “altro”) è un mito frequente nel ceto medio meridionale a cui appartengo, che da circa un secolo e mezzo prova a sentirsi normale, anzi, per usare un termine sempre in voga, perbene. Uno dei fattori della sua “rieducazione”, a un certo punto, è stato un rapporto di amore/odio con la lingua dei nonni, che nella migliore delle ipotesi è sfociato nella diglossia, cioè nell’uso privato del cosiddetto dialetto, e nella peggiore nella rimozione totale.

Questo processo porterebbe a formulare una conclusione a mio avviso più sincera: “Sappiamo che, quando si è trattato di ‘fare gli italiani’, abbiamo perso un patrimonio culturale importante, ma ormai è fatta e non sentiamo l’esigenza di recuperarlo, o certo non vogliamo si faccia a scuola”. Severo ma giusto, come si suol dire oggi. Più che giusto, onesto. Ma quella tra onestà e umanità è una falsa rima: ci piace infiorare le cose. Trovare un motivo nobile per mantenerci nelle nostre convinzioni.

E il motivo più nobile a cui possiamo pensare è spesso: “Lo faccio per il tuo bene”.

Sicuro sicuro?

Mi viene in mente il cartello nella chiesa di Sant Pau che spiega che l’aborto vada condannato “per il bene delle ragazze”, perché per loro è un trauma ecc. Lì la domanda sorge spontanea: ma che davero? Per il bene delle ragazze o delle “vite” che credete di salvare?

So che qui non vi troverò d’accordo, ma trovo che accada qualcosa di simile con la questione dell’utero in affitto, che secondo molti andrebbe proibito “per il bene delle madri”: non ci soffermiamo su come prevenire gli episodi di possibile sfruttamento, ma bolliamo tutto il fenomeno come un torto fatto a povere donne indifese, che noi ci sentiamo assolutamente in diritto di dirigere verso dei valori sani. I nostri. Sarà che, spesso, sono valori inculcati con la cucchiarella da genitori che di per sé non dovevano avere un gran rapporto con la sincerità.

Come loro, noi facciamo tutto per il bene degli altri e non sempre siamo sinceri con noi stessi.

A volte abbiamo bisogno di trasformarci in critici cinematografici, per apprezzare un film di guerra senza sembrare meno intellettuali. O dovevamo aspettare un “ignoto” cantante napoletano con video ben fatti, per ascoltare musica che, in un’altra lingua, avremmo definito forse mainstream.

Sarà la ricchezza spontanea del nostro “dialetto”.

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