Ho un’amica che è stata l’ultima a partire.
Anche lei, come me, si ritrova i quarant’anni più vicini dei trenta, benché non proprio dietro l’angolo, e anche lei, una volta a Barcellona, non si è fatta prendere subito da quell’entusiasmo da Carnevale eterno che rende altri espatriati un po’ difficili da tollerare. Io avevo vissuto quest’esordio “sobrio” a ventisette anni, dimostrando se ce ne fosse il bisogno che certe teorie su cosa piaccia a trenta e cosa a venti sono spesso luoghi comuni.
Può essere vero, però, che più il tempo passa e più è difficile partire, a meno che in effetti non si fugga da qualcosa come un divorzio, un tracollo economico… Lo dico per far contenti quelli che si sentono una specie di supereroi a non muoversi da dove sono nati.
Parliamoci chiaro, anche la mia amica ha ceduto a quest’affascinante retorica, infatti mi ricorda sempre che “sta ricominciando daccapo a trentasei anni suonati“, ed è subito armatura d’oro, fulmine di Pegasus, e andiamo a comandare armate di curriculum tra le aziende di copywriter sulla Diagonal.
I curriculum li aveva già tradotti almeno in spagnolo, perché se devo pensare alla cosa più saggia che abbia fatto la mia amica me ne viene in mente una sola: si è informata. E molto prima di far passare le sue tre valigie strapiene al check-in di Capodichino.
Pare la più scontata delle misure di sicurezza, e invece è l’ultima che si fa: spesso i nuovi arrivati sono troppo rapiti dal “chi la dura la vince”, e poi si sa, “il mondo è di chi se lo piglia” (ho già detto che Steve Jobs ha fatto più danni delle cavallette?).
Mi ritrovo così delle trentenni che sui social mi chiedono informazioni per insegnare italiano a Barcellona, “anche se non parlano un’acca di spagnolo”. Finiscono per stupirsi: “Ma come, non basta una laurea italiana?”. Ora, io detesto i parrucchieri che attaccano chi si taglia i capelli da sé (presente), quindi non riservo a nessuno lo stesso trattamento da professionista offesa: faccio solo notare che non si è molto competitive, se una scuola deve scegliere tra un’italiana con la laurea e un’altra con laurea, diploma d’insegnamento e documenti in regola per lavorare (sempre io). A questo punto, però, viene la carrambata: le mie interlocutrici o vogliono partire in queste condizioni dalla Germania, lasciandosi alle spalle un lavoro ben remunerato, o vengono al seguito di un compagno già assunto con un modesto stipendio locale. Il “probabilissimo” lavoro d’insegnante era per riuscire a pagare l’affitto di 80 mq a Barcellona (e qui trattengo le risate), e anche una scuola privata al figlio di tre anni, che si sa, quelle pubbliche insomma… A questo punto ricordo i 500 euro per una escola concertada, comunque più economica delle private, e non rido più: penso a questo frugoletto che una volta qui, oltre a dover imparare i pronoms febles, rischia di sciropparsi 30 metri quadri in culo ai lupi e un’iscrizione alla scuola pubblica fatta in ritardo.
La mia amica è partita da sola, ma ancora prima di rivolgersi a me ha avuto la presenza di spirito d’informarsi sui documenti e di trovare un alloggio temporaneo intanto che gira a caccia di stanze non lillipuziane, né proprio in Papuasia.
Perché il problema delle autonarrazioni non è la pretesa sacrosanta di ricominciare a trentasei, cinquanta o settanta suonati: ricordo una negoziante sessantenne che dalla Toscana voleva le trovassi un posto da cameriera! Il problema è scordarsi delle mille cose da fare per riuscirci, tappe che hanno meno a che vedere col “sudore della fronte” e più con ore di fila all’alba fuori a un commissariato, chilometri macinati coi curriculum in mano, eterne rassegne di ripostigli riciclati come stanze a 350 + spese.
Si tratta, dunque, di noia, di esercizio e della costanza di ricordare perché si sta facendo tutto questo, anche quando i perché cambiano.
Solo allora scopriamo il magnifico lusso di “ricominciare daccapo”, e ci godiamo il processo.