Il bello e il brutto di Barcellona è che conosci persone di tutto il mondo.
“Il bello”, perché scopri il loro modo di pensare, i loro gesti, le espressioni.
“Il brutto”, perché scopri anche i loro traumi.
Ieri l’indepe di casa ha visto un amico serbo-croato-bosniaco (giuro) che ha vissuto nel suo paese fino a questa storia: la storia del pacchetto.
In realtà credo fosse un pacco, ma l’indepe si sarà confuso con paquet, in catalano.
L’amico aveva otto anni e andava con sua madre a portare il pacchetto allo zio.
Lo zio era rinchiuso in uno stadio con altri prigionieri, una moda dura a tramontare: la sua città era stata presa dai bosniaci musulmani, e lui probabilmente non aveva fatto niente, ma era croato.
La madre dovette lasciare il pacchetto all’ingresso, non poté vederlo. Del fratello seppe solo, tempo dopo, che era morto in un’esecuzione pubblica: non avevano avvisato le famiglie.
Dopo il racconto, tra me e il narratore c’è stato un momento di silenzio necessario. È quello in cui ci si inventano gli dei e le ricompense ultraterrene, o semplicemente si decide se non si può più andare avanti, dopo aver saputo che questo è stato, o se ce lo permettiamo. Spoiler: ce lo permettiamo.
Allora ho rotto il silenzio chiedendomi cosa metterei io in un pacchetto all’indepe, a mio fratello, al mio migliore amico, a mio padre, se fossero in uno stadio nella probabile attesa di un’esecuzione.
Centinaia di colis spediti in Francia per la Prima Guerra Mondiale, nelle lettere che ho studiato per la tesi, mi hanno insegnato lo stesso che qualche ora di volontariato: non devono mancare i calzini.
I calzini li vogliono i soldati e i barboni, in tutte le stagioni. È qualcosa che forse non potrò mai capire davvero.
In uno dei calzini, oppure nel cibo che li accompagnerebbe (roba già pronta, che duri un po’), nasconderei dei soldi, nell’ingenuo tentativo di non farli sgamare.
Magari ci metterei una cosa minima, una foto o un fazzoletto, che ricordasse subito al prigioniero quello che c’è fuori, per ritornarci almeno con la mente.
Sul biglietto sono indecisa. Sicuramente ci scriverei “Ti voglio bene”, magari addirittura “Ti amo”, anche se coi consanguinei mi farebbe comunque un po’ strano.
Quello che mi lascia nel dubbio è se scrivere o no “Andrà tutto bene”, anche se so di mentire, o, peggio, non lo so.
Magari spererei che a esprimerlo nero su bianco succedesse davvero. La superstizione s’infila sempre negli interstizi dell’impotenza.
Infatti mi sa che, alla fine, ce lo scriverei.
(L’indepe dice che è una canzone contro la guerra. Mi fido solo perché non volevo mettere il solito Bregović.)