Sono reduce da questa festa del 25 aprile, e confesso che al momento d’intonare canzoni di lotta faccio un grande salto di ottimismo, e fiducia in me stessa:
“anche se ci aspetta l’orrore e la morte, contro il nemico ci chiama il dovere”;
“uniamoci tutti nella lotta finale, il genere umano è l’Internazionale”;
“andremo avanti come sempre ti abbiamo seguito, e con Fidel ti diciamo ‘Hasta siempre, comandante’ “.
Questi sono solo gli esempi in spagnolo. Non vi dico nemmeno “se io muoio da partigiana” (che anche le partigiane, e le staffette, morivano) dove mi dovete seppellire. E giacché Mattarella ha fatto lo spericolato paragone con “i ragazzi del Risorgimento” (ma non siamo nuovi ai tentativi bipartisan) devo confessarvi che quel “siam pronti alla morte / Italia chiamò” che da piccola intonavo ai Mondiali mi sembrava un po’ un’esagerazione, almeno nel mio caso.
Per questo, a maggior ragione ammiro e onoro chi davvero ha avuto il coraggio di fare tutto questo, sperando di poter affermare che, se mi fosse toccato, avrei fatto altrettanto.
Ma non posso giurarvelo: probabilmente, sotto minaccia di violenza fisica, farei qualsiasi cosa mi dicessero. Non credo neanche di dover chiedere scusa per questo, perché per me la storia del dovere non attacca: nessuno è costretto a fare l’eroe, è questo a rendere eroico chi lo fa.
Figuriamoci se la minaccia di violenza subentra in un contesto per cui non lotti né per un ideale, né per la tua famiglia, ma per portare la pelle a casa. Su questa linea, consentitemi di dire qualcosa su un argomento totalmente diverso: il processo per stupro che ieri ha fatto scendere in piazza migliaia di persone in tutto lo Stato spagnolo. Vorrei far notare che c’è qualcosa di profondamente sbagliato in leggi che prevedano, in qualsiasi paese, che una o deve fare la martire o ci stava. Se le premesse sono queste, mi chiedo a quale sentenza giusta si possa mai arrivare.
Ecco, solo questo.