Ho conosciuto un ventenne napoletano che odia Maradona.
Niente di personale, l’ho capito subito. “È che tu non c’eri” gli ho detto. “Io sì”.
Ha assentito: si sentiva escluso da tutto il casino che facevamo noi “anziani” sull’argomento. Non aveva sperimentato nessuno dei momenti di gloria, o di tifoseria assatanata, che descrivevamo, tra caroselli in Alfa Sud e partite seguite alla radio.
Come un coetaneo mio che non coglieva le citazioni dei film di Totò (e pure io, a parte quelle clamorose, sono una mezza schiappa), quindi nella comitiva era scoppiata un po’ la moda di infliggergliele all’improvviso, ridendone tra noi e aspettando che lui facesse il sorriso di circostanza di chi non poteva partecipare allo scherzo.
Con Camilleri, invece, non ho potuto partecipare al lutto. Di lui ho letto solo Il ladro di merendine e Maruzza Musumeci: mi sono piaciuti entrambi senza trascinarmi, il secondo mi ha fatto sorridere e riflettere sul concetto di “avere una bella vita”. Il protagonista era il tipo più normale del mondo: si ubriacava ai battesimi, sbarcava il lunario come poteva… L’unica era che aveva sposato una sirena. Non c’era il mistero impenetrabile della Lighea di Tomasi di Lampedusa, che mi aveva impressionata, ma pure lasciata col magone.
Invece di Camilleri, e la cosa mi piaceva, mi arrivavano solo spunti divertenti, o tutt’ al più agrodolci: i vari “Montalbano sono”, l’imitazione dell’agente che parla strano, l’imitazione dello stesso autore che faceva Fiorello. So che ultimamente diceva cose importanti sui migranti, come vedrete giù, e meno male. Lo scotto di scegliersi il paese, invece di nascerci, è anche sentirsi un po’ come il ventenne di cui sopra: vedere tutti tristi o concentrati su qualcosa che non hai vissuto, e non capisci.
Poi lo so, c’è chi sceglie il paese in cui nasce, e chi, direbbe Camilleri, non ha il lusso di scegliere.
Io quando è morto De Crescenzo ho capito. Non perché fossi una grande fan dell’autore, che avevo visto da adolescente in funicolare a Capri, e riconosciuto proprio dal suo affanno di nascondersi dietro un cappello di paglia (la sua accompagnatrice mi aveva insegnato che una potesse essere di una bellezza indescrivibile, e pure di una classe squisita). Ho capito, perché è difficile prescindere da lui nella cultura pop che è toccata in sorte a me. Anche lui ha i suoi tormentoni, e quello che ripeto più spesso, grazie al mio espatrio, è la conclusione del professor Bellavista: “Si è sempre meridionali di qualcuno“. Oppure, di fronte a ignari catalani, grido “Resistete!” a un amico costretto a compagnie poco simpatiche, manco fosse bloccato in ascensore con Cazzaniga. Mio padre, del discorso al camorrista, cita sempre: “Ma vi siete fatti bene i conti?“. Invece, quando penso a cose tipo: ” ‘Nu milione… Uh aneme d’ ‘o Priatorio!”, ” immagino i miei amici trentini o veneti con lo stesso sorriso di circostanza dell’amico che non coglieva Totò. Che poi loro sarebbero uomini di libertà e io una “donna d’amore”, nell’unica distinzione che, per citare un ragioniere molto poco libero, mi sembra una cagata pazzesca.
In effetti De Crescenzo parla a pezzi di me che non esistono più, eppure li devo avere ancora da qualche parte, insieme alle curiose convinzioni che mi hanno inculcato: nel 1991 avevano regalato a mio nonno, che festeggiava l’onomastico d’estate, il libro Elena, Elena, amore mio, e io avevo cercato d’impossessarmene, ma mi era stato subito proibito. Erano letture poco adatte a una bambina di dieci anni.
L’anno dopo, il volumetto rosso era finito nella vecchia stanza di mia madre, che tra le varie cianfrusaglie ospitava anche i libri per cui non c’era spazio sugli scaffali della biblioteca. Detto fatto: mi chiudevo lì dentro e mi mettevo a leggere con avidità quelle pagine proibite. Mi sembrava di essere presente a una conversazione di quelle che in mia presenza s’interrompevano, e allora o si cambiava argomento o mi si mandava a prendere qualcosa di là.
Non ero sicura che mi piacesse, ma certamente mi affascinava. Quel tamarro di Paride s’innamorava di Elena dalla sola descrizione di Afrodite, che diceva tipo “le sue gambe sembrano fatte apposta per essere accarezzate da mani maschili” – e la cosa, non sapevo bene perché, mi irritava alquanto. Soprattutto mi stupiva la furia con cui questo pastore dal pedigree reale volesse ‘sta donna. “E che è?!” avrei commentato anni dopo, quando avrei scoperto il duo Troisi-Benigni alle prese con una lettera a Savonarola.
Devo essere stata l’unica della mia classe ad amare di più l’Iliade tradotta da Monti, che quella parodiata da De Crescenzo. È che la foia di Paride non m’interessava: volevo la famiglia di Ettore, finale a parte.
Ma quelle letture proibite fatte di nascosto hanno molto a che vedere con la donna che sono diventata, e questo lo capisco.