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Un libro che vorrei leggere

In prima media avevo lo stesso fisico di adesso, ma per allora ero una pin-up!

È uno scherzo che faccio spesso e che dalla realtà si allontana poco, diciamo una decina di centimetri, mezza misura di reggiseno e un paio di taglie di abbigliamento (il piede è rimasto uguale). Per la verità mi era venuto il ciclo a nove anni e, a parte che crescere mi spaventava, certe dolcezze infantili passavano già sotto la morsa dello sviluppo, nelle parti sbagliate. La cosa mi angosciava perché, a quanto avevo capito, ‘sta storia di essere belle era fondamentale perché il mondo ti cacasse.

Se eri bella dentro dovevi esserlo anche fuori: in effetti, detto fra noi, la matrigna di Biancaneve mi sembrava un po’ cessa, non capivo che ci trovasse lo specchio per darle almeno la medaglia d’argento.

Quindi la prendevo come un’offesa personale quando, di qualche personaggio femminile, leggevo l’evidente traduzione dall’inglese: “Non era una bellezza”. Succedeva soprattutto in libri scritti da donne, che in realtà porelle cercavano di dirmi: “Tranquilla che non devi essere l’ottava meraviglia del mondo per essere brava, e felice”. Le protagoniste degli uomini che mi era consentito di leggere allora erano perlopiù altissime, purissime, levissime, come una pubblicità dell’epoca.

Dunque, quando in classe abbiamo letto “La mia Ilaria” di Giovanni Papini (nome che ho rimosso, per ritrovarlo dieci anni dopo accanto a una bella scrittrice) il racconto del nonno che descrive la nipote mi faceva paura quando recitava:

Forse chi la incontra non la vede neanche bella. Per me invece più bella di Ilaria non c’è.

Ma come, “Per me”? Anche mio nonno si chiamava Giovanni e mi trovava la bambina più bella del mondo, e tutti… tutti erano d’accordo. Vero? Vero? L’autore infieriva: “Eppure, non riuscirò mai a dire perché Ilaria a me sembra bella…”.

Perché lo è, a nonno! Che nonno sei, che lo dubiti pure?

Insomma, mentre perdevo il mio trono di bella bambina un po’ “pereta” per trasformarmi in una preadolescente con macchinetta e ciuffo anni ’90, mi godevo con sentimenti alterni questa descrizione di un nonno orgoglioso.

Poi sulla bellezza ho riflettuto, letto libri, e scritto vari post tra cui uno ancora in bozza, ideato quando è morta Virna Lisi. Intanto “la mia Ilaria”, cioè Ilaria Occhini, era un’attrice che ammiravo nelle sale ma che non collegavo alla protagonista di quel lontano racconto bello e inquietante. Oltre a fare bene il suo lavoro mi ha fornito alcune delle definizioni più scanzonate della bellezza: un mistero che, con qualche eccezione, è una sfida e un carico (e a volte un’arma) che grava soprattutto sulle donne.

La mia bellezza è come se fosse una cosa, una borsetta, un foulard che porto con me, non ne parlo con nessun vanto.

Non vale la pena dipingersi migliori di quello che si è. Io sono stata, si dice, bellissima. Non credo di esserlo più. Ma non è ridicolo tutto questo affannarsi?

E certo che è ridicolo, ma me ne sono accorta tardi. Il tempo di sentire uomini in strada discutere su se fossi “papabile” o no, o di sentirmi dire “I tuoi compagni una femmina tengono in redazione, ed è così” (sarò sempre grata al bambino che in un parco di Aversa mi difendeva con l’amichetto: “Pe’ mme, è bellella”). Già migrata in terre più critiche con la pressione estetica, ho riso con gli altri dell’aneddoto di un attore americano, letteralmente un “ex Romeo“, che per vincere un Oscar ha dovuto, tra le altre cose, mettere su qualche chilo e due rughe.

Quando ho scoperto che la brava attrice morta ieri era l’Ilaria del mio racconto, sono stata contenta della vita che ha fatto, della carriera e dei successi.

Ed è stato quasi comico rendermi conto pure, adesso che ho imparato a dare il giusto peso alla cosa, che era bella davvero.

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