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La firma di uno che avrebbe risolto il mistero – ah, no, quello era inglese!

Vi giuro che ci stavo scrivendo un giallo.

Già vedevo il titolo: “La dedica mancante”. Sì, lo so, questa volta era Nobel.

Fatto sta che, quando Jen ha salutato il gruppo di scrittura per tornarsene in Austria, l’americana dalla gentilezza inarrivabile le ha consegnato un libro “a nome di tutti noi” – anche se l’aveva comprato di tasca sua – e l’ha fatto girare perché lo firmassimo. Ora, io volevo leggere la dedica di Tim, che è un ragazzo che scrive benissimo, in lingua inglese. Non la trovavo: eppure aveva avuto il libro in mano prima di me! Però il suo nome non compariva sotto le dediche degli anglosassoni, e sapevo che non poteva figurare tra quelle in spagnolo. Per non parlare di un chilometrico pippone in tedesco, di cui decifravo giusto “Meine Liebe” (Duolingo ci ha provato, ma non è che ci capisca molto di più…).

Che avesse scritto la dedica misteriosa nelle ultime pagine?

Solo a seduta sciolta ho avuto il sorpresone, grazie a una chiacchierata sui nostri accenti: Tim, l’uomo che avrebbe potuto insegnare l’inglese alla regina (sul serio, ha un accento “posh” irritante!), era nato a Dresda, e si era trasferito ancora piccolo nella perfida Albione. Dunque, “Elementare, Watson!” (da leggersi con la “w” di water): era lui l’autore dell’interminabile dedica in tedesco, quella di “Meine Liebe”…

File:Sir Arthur Conan Doyle Signature.svg

Ecco qua, mistero risolto!

A ben vedere, le sorprese diventavano due, perché dopo i saluti finali lui e la partente si erano allontanati insieme, allacciati in atteggiamenti più attribuibili – ma sono pregiudizi – a noialtri mediterranei, che alla schiatta nordica… Come avevo fatto a non accorgermi prima dell’idillio?

Beh, lui ha vuotato il sacco solo dopo averla accompagnata all’aeroporto. In attesa che lei ritorni, come gli ha promesso, dopo le feste, ha un modo tutto suo di ricostruire questa storia d’ammore… E devo dire che non sono da meno neanche i resoconti che ora mi fa la “Liebe” in chat! Confermano un’idea che devo aver letto da Watzlawick, e dal suo allievo Nardone: la vita è narrazione, e le storie d’amore sono un esempio lampante di interpretazione “parziale” – e un po’ pilotata – dei fatti.

Perché non dubito che l’incontro tra Jen e Tim, che si erano attardati a parlare un giorno che ero assente, sia stato magico come lo raccontano: sono tutti e due di bell’aspetto, e in un’età che, specie a Barcellona, è forse più propensa al rimorchio. Proprio per questo, però, ricordo anche gli occhi a cuoricino di lui per questa o quella cliente fissa del bar in cui ci riuniamo, e la propensione di lei a farsi servire solo da un certo cameriere – guarda caso alto e atletico, col combo pelle ambrata & occhi azzurri…

Dunque, come accade di solito alle relazioni, comprese le mie, sono state in buona parte le circostanze a favorire proprio quell’unione, tra tutte le possibili: per dire, nel corso di una collisione tra vassoi, una delle fanciulle ammirate da Tim aveva protestato in un inglese tremendo, e lui, a sua volta, si era scusato in uno spagnolo che Pieraccioni, al confronto, era Cervantes.

Ma già, è questione di circostanze. Un altro classico è mitizzarle: pensate che strano, Jen era già in fila alla cassa lo stesso giorno in cui Tim s’era anticipato tantissimo per l’esercizio psicologico, e come per magia tutti gli altri non si erano presentati… Io, che ricordo bene la data, so anche che una sorta di festival aveva trasformato la città in un grande mercato, un po’ al di là dei soliti giri turistici: un’informazione che gente che parlasse non dico il catalano, ma almeno uno spagnolo da combattimento, conosceva benissimo!

Va anche detto che, quando ricordiamo “come ci siamo conosciuti” – argomento a cui, com’è noto, vengono dedicate anche serie televisive – tendiamo a eliminare tutta la parte di “lavoro”: inteso nel senso di sforzo, tensione verso l’altro, necessario bisogno di trovare un terreno comune per scoprirsi a vicenda. La parte pallosa, insomma. Per questo, una delle battutacce più frequenti su Tinder è: “Sono disposto a mentire su come ci siamo conosciuti!”.

Perché è figo scontrare il vassoio con qualcuno al bar – specie se parlate la stessa lingua! È meno figo ammettere che, mettiamo: la prima volta avete parlato mezz’ora, ma solo dell’esercizio di scrittura; la volta dopo hai notato qualcosa in lui che ti dava da pensare, e te la sei svignata prima; poi l’hai incontrato fuori al Mercat del Born e ti sei detta “Perché fermarlo, tanto…”; poi l’hai rivisto la domenica successiva e gli hai chiesto se tornava verso il Mercat, ti ha risposto di no e hai fatto da sola la strada di casa; poi lo hai invitato a chiamarti quando passava dalle tue parti – cosa che ha fatto con cinque giorni di ritardo; poi gli hai chiesto d’inviarti il link del suo blog – cosa che ha fatto con dieci giorni di ritardo, dopo esservi visti di nuovo di persona come niente fosse; e questo balletto di vedervi più per caso che per altro è continuato finché non l’hai invitato a prendere un caffè napoletano da te, e alla terza volta che veniva era fatta!

Ehm, quello di sopra era un esempio inventato di sana pianta, ogni riferimento a fatti o persone di origine napoletana e (davvero) albionica frequentanti il gruppo di scrittura è puramente casuale. E come vedete, è una ricostruzione romanticissima.

In bocca al lupo a Jen e Tim! Quello che stanno vivendo non è meno bello e importante solo perché appartengono alla stessa specie animale: una che ama raccontarsi storie, e raccontarsele bene, e ogni tanto imparare da quelle.

Sono altri i casi in cui si debba cercare, per forza, una verità “obiettiva” su come siano andati i fatti.

Per tutto il resto, c’è la voglia di crederci. Ma proprio tanta.

 

 

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