Tutto mi sarei aspettato dalla ragazza, tranne che mi parlasse del sjug.
Oppure zhoug, o סחוג, o anche سَحاوِق. Insomma, quella salsetta di coriandolo e peperoncini verdi che dieci giorni fa ho finito per comprare alla Fiera vegana, quella volta che ci facevo la commessa per caso. Aiutavo un amico, quando un tipo israeliano che conoscevo da un esperimento fallito di socializzazione si era fermato davanti a me, meravigliato di vedermi. Io, d’altronde, ero stupefatta: che ci faceva lui, in mezzo alla gente erbivora?
“Sono venuto a trovare il ragazzo della bancarella in fondo, lo vedi? Vende una salsa che mi piace molto”.
Era tornato da me, il tempo di farmi venire l’acquolina in bocca, col barattolo dal contenuto verde e la scritta “sjug”, che lui pronunciava senza la j.
“Come il sugo italiano!” avevo provato a dire.
Lui, che aveva vissuto molto tempo in Italia, mi aveva fatto un sorriso di commiserazione ed era sparito. In effetti quella sera, a casa, dopo aver intinto un pezzetto di pane in quel laghetto smeraldo, avevo cominciato a sputare fuoco e fiamme. Neanche certi sughi calabresi arrivano a quei livelli! (E poi, a dirla tutta, questa cremina piccante viene considerata il pesto mediorientale, mentre un cugino più evidente della salsa di pomodoro è il “tuco” argentino!)
L’altro ieri, dunque, alla cena egiziana di Abrazo Cultural, la donna della coppia di invitati californiani – lui bianco e allampanato, lei bassina e con la pelle ambrata, forse di origine indiana – mi ha chiesto proprio se alla fiera, che avevo appena nominato, avessi notato il tipo che vende il sjug. Anche lei, che su Netflix segue una roba che si chiama Taco Chronicles, all’evento ci va un po’ perché è vegano il marito, e un po’ per comprare l’ormai mitico sugo. Al che mi sono detta: vuoi vedere che sono l’unica che ne abbia ignorato l’esistenza fino ad ora? Sia del bancarellaro, che della salsa.
“Adesso sono confusa” ho confessato “di dov’è, ‘sto comesichiama?”.
Prima di rispondermi, la tipa si è consultata col marito su come si dicesse in spagnolo – la lingua che stavamo usando – quello che voleva esprimermi.
“È una domanda politica, la tua” ha replicato lui al posto suo.
“Qualcuno ti dirà che è palestinese” gli ha fatto eco lei “e qualcun altro, che è israeliano”.
Dunque, parallela alla guerra cruenta che già conosciamo, se ne stava sviluppando un’altra, sotterranea, sull’origine di vari piatti, tra cui il sjug. Avrei scoperto dopo che la pietanza è originaria dello Yemen, di cui ora conosciamo, o meglio ignoriamo, solo la recente guerra che condanna alla fame migliaia di bambini. Di tutto questo, io non sapevo un bel niente.
Eppure era politica l’intera cena egizia, pure vegana tra l’altro. Il giovanissimo cuoco, che vi ho già presentato qui, ci ha spiegato prima cosa significasse essere gay in Egitto – tra i nomi che ha fatto ne valga uno: Zaky – poi si è esibito in un assortimento di legumi cucinati in vario modo: lenticchie stufate con carote, fave nel loro sughetto, e certe foglie che ricordavano gli spinaci, ma erano più saporite. Il tutto accompagnato da riso in bianco e succhi di frutta. Infine ci ha servito una sorta di budino con l’amido di mais, un dolcetto farinoso con disseminati sopra dei pistacchi, e del tè molto forte, che non mi avrebbe fatto dormire la notte successiva.
“Dovresti mettere anche tu una bancarella alla Fiera vegana!” ho proposto a Mahmood.
Ha detto che ci pensa, tanto il tempo non gli manca. Sta aspettando che lo Stato spagnolo gli conceda il diritto d’asilo nonostante gli accordi di Dublino, sulla base di una doppia discriminazione: in Egitto come omosessuale, e nel primo paese europeo d’accoglienza (la Romania) come “terrorista”. Proprio così. Gliel’hanno urlato un vecchietto in bus, e una professoressa di francese, mentre i primi amici che era riuscito a conoscere avevano deciso più diplomaticamente di evitarlo. Qui a Barcellona deve andare ogni sei mesi in commissariato, per vedere se è arrivato il sospirato vistiplau. Tra una visita e l’altra, manco a dirlo, vive una vita un po’ sospesa, come la sua richiesta d’accoglienza.
Degli aneddoti che mi ha raccontato, mi è piaciuto tanto quello della zia che durante il Ramadan, mentre lui pregava più per abitudine che per convinzione, si era messa a urlare perché gli aveva sgamato i WhatsApp del fidanzato: Rouhi, c’era scritto. Chi era quel ragazzo che chiamava suo nipote “Anima mia”?
Allora, visto che a quanto pare non puoi rivolgere la parola a uno che sta pregando, lui aveva cacciato una devozione infinita, e per un tempo spropositato! Dopodiché si era rassegnato a dare spiegazioni, e a casa l’avevano presa più o meno bene. Più o meno.
Dell’Egitto gli manca il dialetto, e le cene post-digiuno con piatti propri, diversi da quelli mediorientali: il sjug, per esempio, non è contemplato.
Devo abbinare questa salsa contesa a piatti miei, in una vera e propria cena “anema e sugo”, magari con quel pane buonissimo che Mahmood ha servito a tavola: quello che con nome greco chiamiamo pita, ma alla fine la mangiano in mezzo Mediterraneo. Per raccogliere il cibo ne stacchi un pezzetto e lo apri “a orecchio di gatto” (sic), così ti diventa una via di mezzo tra un cucchiaio e una vera e propria scarpetta di pane.
Vorrei essere più brava, in operazioni così.
A volte ci sono tante di quelle cose da raccogliere, che ne lasci sempre qualcuna dietro.