Image result for nursery meme Quando vivevo nel Raval, in un appartamento al primo piano del mio palazzo vedevo sempre sparire decine di “pakistanini” alla volta.

Ci ho ripensato adesso che le scuole in Italia sono chiuse, e c’è il problema di occuparsi dei bambini. Che non dovrebbero neanche stare troppo tutti insieme, ma vabbe’.

Quelle volte nel Raval, uno scorcio di porta semichiusa mi regalava una visione surreale: una fiumana di minori di 12 anni che si disputavano un divano e un paio di poltrone. Chiesi lumi ai miei vicini del terzo, che mi rimpinzavano di basmati al limone e mi facevano tatuaggi all’henné: era una sorta di doposcuola, per la prole degli immigrati di prima generazione. Leggevano il Corano, ma soprattutto avevano qualcuno che badasse a loro, mentre i genitori erano in tutt’altre faccende affaccendati – tipo, spaccarsi la schiena a lavorare quelle dodici ore al giorno in un magazzino, o nella casa di una persona anziana.

Non era una novità, per me: ai tempi del liceo, qualcuno di un’altra generazione mi aveva detto che, per qualche soldo, una signora nei pressi della succursale si era occupata dei bambini del circondario. Non appresi mai i particolari di quell’attività, ma molto tempo dopo l’avrei proposta con un certo entusiasmo nella sezione suggerimenti della riunione del Consell de barri di Sants-Montjuïc. Mi venne snobbata dagli anziani partecipanti, che a loro volta snobbavano la comunità straniera gentrificatrice per le loro havaneres e xocolatades.

D’altronde, il mio distretto preferito di Barcellona risente dello sradicamento comunitario che caratterizza le città moderne: popolazione isolata ed eternamente cangiante. Al di là dei problemi logistici, una rete di vicini – in senso lato – che si unisca per sopperire ai bisogni essenziali, come la cura dei bambini in caso di emergenza, si può creare solo in condizioni di estrema fiducia per le persone incaricate, meglio se fondate su una conoscenza decennale.

Nel caso dell’immigrazione nel Raval, si è fatto di necessità virtù: è gente col passaporto sbagliato, per gli standard europei. Considerata delinquente fino a prova contraria, si unisce nelle stesse strade, si scambia case e cede proprietà, e ha i propri referenti immobiliari, lavorativi, religiosi. “Siamo un paesone” ammise un amico del ragazzo che frequentavo allora (sempre uno del terzo piano, ci avrebbe poi separati la religione), “qui sappiamo tutto di tutti e la comunità non tollera certe cose”. Per esempio, non tollererebbe una persona che non sa badare come si deve ai bambini, ma anche, purtroppo, il fatto che il tizio del terzo piano, pallavolista di professione, fosse approdato nella squadra di pallavolo della comunità LGBTQIA della città: un “equipo todo maricón” (cito lui) in cui s’era imbattuto per intercessione mia, e che in ogni caso gli era andato benissimo, finché un amico presente agli allenamenti non aveva commentato sulle tendenze sessuali dei compagni di gioco. Allora, la situazione non andava più bene perché, cito di nuovo, “después gente pensar que yo también maricón”. Lapalissiano.

È per questo che non sarò io a fare la romantica sulle piccole comunità e sulla solidarietà reciproca, fondata anche su pettegolezzi e rivalità più o meno patenti: l’esempio dei femminielli è confortante, ma purtroppo l’apertura mentale verso i propri membri non sempre si estende a persone estranee alla comunità. A Forcella, dove le trans locali di un vascio erano rispettate, un potenziale coinquilino mio in foularino rosso e capelli tinti venne chiamato “Ricchiooo’!” al primo avvistamento. Quando quello se la diede a gambe e mi trovai un vietnamita, il proprietario mi disse che “non voleva cinesi a casa sua”.

Tornando a Barcellona, non ho mai amato la precisazione, pur comprendendola, che solo chi resta a lungo in un quartiere può creare una comunità: mi è sempre sembrata una sorta di protezionismo verso chi, mi sa, preferirà sempre le xocolatades (bone!) a un incontro con gente di tutto il mondo, come se si dovesse per forza scegliere.

Forse dobbiamo pensare a un altro modo di far comunità, non monolitico né omogeneo, non fondato sugli stessi passaporti o gusti sessuali. Dovremmo creare spazi più funzionali per le persone, luoghi d’incontro che incoraggino la socializzazione di chi sia lì, in quel momento, piuttosto che scoraggiarla a beneficio di chi ha i soldi per permettersi di occupare spazi a pagamento, come bar ed esercizi commerciali.

Bisogna lavorare con quello che si ha. Certo, se per rinnovarti un contratto d’affitto ti chiedono il 40% in più sul prezzo di prima, puoi anche trovarti benissimo nel quartiere, ma con uno stipendio medio di qua (dove baci a terra se hai più di 1000 euro) te ne devi andare per forza.

La questione è aperta: come possiamo fare rete di fronte alle nostre società frammentate? E senza rimpiangere “bei tempi andati” che per fortuna o purtroppo non torneranno più, ammesso che siano mai esistiti.

Avendo aperto con la comunità pakistana, per la serie “volemose bene” chiudo con quella indiana: una dottoressa residente in Inghilterra confessava a un’amica che sua madre, casalinga, preparava ogni giorno i chapati freschi al marito. Lei che ha scelto un altro mestiere, oh, li compra già fatti.

Però, ai pranzi di quartiere stile “io porto una cosa e tu un’altra”, dovreste vedere quante forme di pane escono fuori, di tutte le parti del mondo: alcune pure senza glutine.

Che si diceva? Bisogna fare di necessità virtù.

(Sognando di tornare a gentrificare il Poble-Sec! :p )

 

 

 

 

 

 

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