Finisce che, quest’anno, le vacanze le faccio in un bel posto che non ho mai visitato prima: Barcellona.
Non ricordo di averla mai vista così tranquilla, non in un momento in cui indossassi solo un abito senza maniche.
Ci voleva una pandemia, perché la avinguda de la Catedral se la riprendessero i bambini. Adesso attentano alla mia vita peggio degli skaters, anche se occupano la strada con più senno di quella coppia di turisti che, credendo di offrirci chissà quale intrepida performance, un giorno s’erano messi ad attraversare tutto lo spiazzo facendo risuonare delle nacchere: il che, in un posto dove di solito si balla questo, equivale un po’ a suonare una bella pizzica salentina in Piazza San Marco. Ma che se ne poteva fregare, chi usa Gaudí come scusa per bere birra a prezzi stracciati, per poi tornarsene a casa e improvvisare analisi sociologiche (“Barcellona è un Vomero che non ce l’ha fatta”, letta davvero sulla bacheca di un ricercatore) sui catalani e su come vivrebbero male senza il turismo?
Io adesso ho un appuntamento: se voglio uscire, ora che si può, sono libera di sedermi tra le fronde e il letto di fiori gialli che all’improvviso possono godersi tutti quelli che si vogliano sedere di fronte alla Cattedrale. All’improvviso la stessa cattedrale, senza le orde davanti, non sembra neanche più tanto una “gran macchina”, un Duomo di Milano che non ce l’ha fatta (così l’accuratissimo studioso di cui sopra sarà contento). Perfino la Rambla ha un senso, ora che l’attraversano perlopiù persone che qui ci vivono. E le riunioni del vicinato si tengono perfino nella Plaça Reial dello spaccio e dell’ubriachezza molesta, dove un tempo si snodava una fila immensa per mangiare la paella surgelata di un ristorante un po’ meno turistico (e un solerte radioamatore, mio connazionale, metteva voti alle gambe delle nordiche in attesa). Anche alle riunioni di quartiere, la fanno da padrone i bambini. Madonna, quanti. Sarà che occupano tutto lo spazio: se non hanno una bici o un monopattino provvedono a correre e saltare. Io non m’ero mai resa conto che, nel Gotico che più di ogni altro quartiere risente della gentrificazione, ci fossero tanti piccoli autoctoni che vivono lì in pianta stabile.
Perfino la Barceloneta è vivibile. “Scusate, ma quando arriva il sole?” chiedeva un ragazzo simpatico alle sue amiche. “Oggi viene a lavorare o no?”. La frase mi aveva ricordato una battuta di Alessandro Siani, su una famiglia che arriva in spiaggia così presto, che il mare non è ancora arrivato.
In spiaggia ci sono sbarcata pure io due sabati fa, in orario britannico (le nove meno un quarto!). Nonostante la mancanza di sole, tempo cinque minuti e il rosso in mia compagnia si stava spellando il naso! Così ci siamo rialzati e gli ho mostrato una Barceloneta che non aveva mai visto: il bar del mercato affollato di vecchiette e famiglie numerose, che ha solo il café con leche, perché il cappuccino è già una sciccheria; le bancarelle che vendono quei vestiti ignifughi a fiorellini che mettono certe nonne in casa; le pagnotte ancora calde di Baluard, che forse è l’unico forno autoctono che mi fa dimenticare un istante il pane cafone. Peraltro, se provate a decifrare il catalano scritto, la lettera d’amore al pane della giovane erede del forno è poesia che fa bene. Non ci poteva credere, il mio guiri gamba (così chiamano gli stranieri pallidi che si fanno subito rossi). D’altronde lui, come già un amico australiano, pensa che purtroppo questa città è “solo fiesta“, non c’è niente di intellettuale. È facile prendere cantonate del genere, basta fare attenzione a non spiccicare mai una parola delle lingue locali, e restarsene in circoletti come il gruppo WhatsApp di scrittura in inglese. Quei blanquitos di mezza età hanno la fortuna di organizzare un barbecue su un terrazzone che da solo vale quanto una casa a La Mina, però devono ironizzare lo stesso sui presunti divieti dei “comunisti in comune”: esotici autoctoni che si permettono di decretare che i soldi non comprano anche il diritto a fare il cazzo che ti pare. Va da sé che, se quelli so’ comunisti, io sono Rosa Luxemburg.
Con buona pace dei tuttologi filovomeresi, mi piacerebbe vedere statistiche vere sull’impatto che la botta al turismo avrà sull’economia cittadina. Hanno ragione le statistiche che presentava un documentario al Pati Llimona? Vado a memoria: l’85% della popolazione di Barcellona non vive di turismo. Lo so: non posso certo dire lo stesso della gente che è ancora in coda per ricevere generi di prima necessità. Adesso la distribuzione si è trasferita all’altra uscita della chiesa, e la fila che si snoda lì fuori fa ancora più impressione: molti latini e pure qualche slavo. Uno, giorni fa, litigava con una catalana dai capelli bianchi che insisteva per fare la fila con un amico, tanto avrebbero chiesto una busta sola. No, niente da fare: l’intruso si mettesse in coda come tutti.
Lo so, che culo che ho avuto. Io ho la panchina sul letto di fiori davanti alla chiesa, e loro hanno la fila per il pane e i fagioli in scatola, con Plaça Catalunya sullo sfondo. Almeno la piazza è tornata a ospitare le manifestazioni di chi non ci sta a ricevere un permesso di soggiorno a scadenza, giusto il tempo di dare una raddrizzata all’economia con manodopera a basso costo.
Tutto questo, temo, esploderà a settembre, quando avremo la prova del nove che tutte quelle saracinesche abbassate, così resteranno.
Intanto, però, ricordo ancora una volta le parole di un signore a un seminario, all’università: “Come abitante della città, voglio gli stessi diritti di chi ci resta tre giorni, anche se non ho lo stesso potere d’acquisto”.
Vediamo se, nei mirabolanti cambiamenti sperati dopo la quarantena, si trova il modo di fare anche questo.