
Secondo un aneddoto, dopo aver ascoltato una conferenza di Einstein sulla relatività, un giornalista esperto in fisica scrisse che, all’inizio, lo scienziato si rivolgeva a tutti, ma dopo mezz’ora erano in pochi a seguirlo, e un’ora dopo parlava direttamente con Dio.
Ecco, alla conferenza che ho dato io l’altro ieri sulla Belle Époque, i tre presenti in sala e i quattordici in diretta devono aver avuto l’impressione che parlavo direttamente con l’extraterreste della pubblicità Kodak. Sul serio, per fortuna in casi come questo mi lascio trasportare e vado col flusso (nel senso di flow), ma come ho confessato poi a un amico: “Non sapevo neanche io quello che stavo dicendo”. Però i tre in sala hanno applaudito, quindi forse è andata.
Che diavolo, una conferenza in catalano da dare fuori Barcellona, rimandata all’infinito per ovvi motivi, m’era stata confermata dieci giorni fa, quando il catalano parlato negli ultimi sette mesi ammontava a circa cinque conversazioni veloci (a parte qualche buongiorno e buonasera, e un paio di “non mi serve la ricevuta, grazie”). Intanto chiudevo un numero bellissimo per una rivista bellissima, e sistemavo il manoscritto che è andato in finale qui, per proporlo a una casa editrice che ammiro, perché mi fa leggere roba all’avanguardia in italiano, senza bisogno di traduzione (cioè, è proprio scritta in italiano: miracolo!). Intanto, per i limiti al traffico imposti dagli acquisti natalizi, lo scaldabagno vecchio mi rimaneva davanti al portone per quattro giorni di fila, proprio di fronte al cartello “Non lasciare oggetti nell’anticamera”. Insomma, mi giustifico, professoressa: è stato un periodo un po’ movimentato.
E vi giuro: pure in treno, mentre andavo alla conferenza, pure fuori alla stazione mentre aspettavo l’organizzatore, me ne stavo con le mie sette pagine stampate fronte-retro con carattere 16 (ormai so’ cecata) e aggiungevo a penna i dettagli che non avevo controllato ancora: due note sulla biografia di Munch, chi ha ucciso Jean Jaurès… Mancava qualcosa? Sì. Non riuscivo a ricordare cosa, però. Dovevo rivedermi meglio i dettagli, ripassati ormai quindici anni fa, di un episodio significativo sia per i conflitti interni alla Francia che per le questioni internazionali dell’epoca: qualcosa tipo…
“L’Affaire Dreyfus?” mi ha chiesto l’organizzatore a fine conferenza, quando era chiaro che nessuno dei tre presenti avrebbe fatto domande. “Se puoi dirci un po’ di cosa si tratta…”
Minchia, Dreyfus! Graduato dell’esercito, ebreo francese, razzismo, J’accuse. Ma che era successo? Cioè, l’episodio scatenante: perché era stato degradato…? Niente, mi friggeva la testa dopo un’ora passata a parlare in chissà che lingua, così nelle due parole che ho improvvisato ci ho messo pure roba che in realtà era successa a Boulanger: ne è uscito fuori un supereroe fin-de-siècle che, se non è esistito, bisognerebbe inventarlo come il Lincoln ammazzavampiri! (Ma anche no.)
Però, sapete che c’è? Al ritorno dalla conferenza, mentre l’organizzatore strada facendo mi faceva i complimenti ed elogiava Berlusconi (“Alla fine è un politico come gli altri… e poi ancora si difende bene, il vecchietto!”), emettevo versi ambigui per non usare le male parole, e pensavo: minchia, Dreyfus. Perché non ricordavo bene la vicenda? È una roba fondamentale! Niente, sono un pezzotto.
Pezzotto (s.m. napoletano): contraffazione, sottomarca di un prodotto originale, spesso venduto a prezzo ribassato, su una bancarella senza licenza.
E allora in treno mi sono chiesta: da dove viene tutto ‘sto livore verso una che ha parlato un’ora della Bella Otero in lingue sconosciute, ma non ricordava com’era finito nella merda Dreyfus? (È anche vero che la vita è fatta di priorità: Carolina Otero nel cuore!)
È da un po’ che ho scoperto la storia della sindrome dell’impostore: quando non vai mai bene e, se succede, pensi sia solo perché hai avuto fortuna. Per non farmi mancare niente, al ritorno a casa ho visto un film che non era ‘sto capolavoro, però parlava di una ragazza che vendeva l’anima al diavolo per essere una pianista migliore della sorella, e finiva per… vabbè, non lo spoilero, ma capirete che non finisce proprio con le roselline.
Sarebbe carino risalire all’origine di tutto questo, senza scomodare per forza il medico cocainomane che ho citato durante la conferenza: cosa ci hanno detto a dodici anni sull’urgenza di spuntare quell’otto in matematica? Cosa pensa nostro padre del nostro modo di vestire? E nostra madre ritiene anche lei che quel vestito ci evidenzia troppo la panza? A che età il fatto di non essere proprio una zucca vuota ha cominciato a essere un difetto, prima che più tardi diventasse addirittura un problema?
A prescindere dalle vostre risposte, è divertente come un sacco di disagio che ci accompagna adesso sia nato in testa a una creatura di dieci, dodici, quindici anni. Scommetto che, se incontrassimo oggi una personcina così giovane e malata di perfezionismo, cercheremmo le parole giuste per chiederle: “Cazzo stai a di’?”.
Ecco, allora teniamo sempre presente che, come diceva Quelo, le risposte sono dentro di noi, solo che sono sbagliate.
A questo punto, non ci resta che fare le domande giuste.