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Le mie feste sono finite, in una botta di tempismo, con l’ultima puntata di Bridgerton.

Come già aveva previsto Ken Loach, il sontuoso drammone mi ha confortata con la sua finta nostalgia: cioè, mi ha consolata del ritardo di tredici giorni che, in qualche modo, mi ha regalato una sindrome premestruale di tre settimane. Al contrario del Duca e della Duchessa di Hastings, non avevo particolare motivo di credere che ciò che mi stesse succedendo fosse altro da un rave di prostaglandine: altrimenti, per onorare un’antica barzelletta sessista, avrei chiamato un eventuale pupo Mandrake.

Devo dire che ci ho messo tipo quarantotto ore ad andare oltre i primi quindici minuti della serie, visto che la storia mi sembrava inventata dalla cugina vrenzola di Jane Austen (al secolo, Julia Quinn). Poi, però, in barba a una prevedibilità che ti fa indovinare quasi tutto, compresa l’identità di Lady Whistledown, ho apprezzato i dialoghi scritti bene, i costumi pacchiani come piacciono a me, e la bravura del cast: tutti particolari che, a maggior ragione, mi hanno fatto soffrire per i tanti difetti della trama.

Cominciamo da una cosuccia da niente: la scena di violenza sessuale dell’episodio 6. Premesso che mettere gli attori “meno scuri” nei ruoli principali non sembra poi così colour blind (vedete il minuto 3:15 di questo video), cosa succede quando è soprattutto la voglia di fare cassa, che ti spinge a creare un cast multietnico? Che la prima scena di abuso di una donna su un uomo, almeno la prima che io ricordi dai tempi di questo film horror, vede una protagonista bianca che non si ferma quando il partner nero glielo chiede più volte. “Come se non fosse già successo prima” twittava qualcuno, e qui mi mangio il cappellino a fiori per la storia mai scritta degli abusi delle padrone in tempi di schiavitù (ma va’ a trovare le fonti!). Ovviamente la scena viene fatta passare per un’investigazione un po’ sui generis della diretta interessata, che viene presentata come vittima della situazione: e credetemi, il suo desiderio di maternità ha tutta la mia simpatia. Come forse avrete notato, io non ho avuto modo di diventare madre anche perché mi sono fidata di uomini che possono permettersi di cambiare idea quelle due o tre volte sui figli, e hanno finito per decidere al posto mio. Quindi spero di essere al di sopra di ogni sospetto se dico che ho un’enorme empatia per il diritto alla maternità, che a mio avviso dovrebbe prescindere dalla volontà maschile. Per questo sono diventata perfino più empatica verso quelle che “lo fanno succedere”, fosse anche martellando allo sfinimento un compagno a dir poco riluttante. Però, da qui a far passare sotto silenzio un rapporto sessuale non consenziente… Anche no. Specie se consideriamo che nel caso del bel Simon il problema non è se vuole figli o meno, ma è perché dichiara di non “poterne” avere.

Ma quello che mi è dispiaciuto di più è stato il messaggio finale: puoi scegliere di amare una persona ogni giorno, non importa quanto questa persona sia segnata dalla vita. È pericoloso pensare che l’amore sia una scelta. Si sceglie di portare avanti il duro lavoro che lo preserva, e che con un po’ di culo può aggiustare perfino una relazione compromessa. Però non si può scegliere di amare. E non si può fare per il motivo meno romantico possibile: nell’impulso iniziale che avvicina le persone interessate c’è sempre una componente a cazzo di cane. Si presume sia un cocktail di coincidenze vitali e di predisposizione affettiva, miste a una sorta di imprinting amoroso che abbiamo ricevuto nei primi tempi della nostra vita. In ogni caso tutto questo, ahimè, non si suscita, non si evoca, in definitiva non si “sceglie” di provarlo. C’è chi non lo prova affatto. Attribuire responsabilità personale al fatto di provare amore o meno è fuorviante e pericoloso: nel caso probabilissimo della fine di una relazione, getta la colpa sui singoli individui pur di non ammettere che certe cose sfuggono al nostro controllo. Così funziona l’amore romantico: devi credere che sia eterno ed esclusivo e totalizzante, oppure hai sbagliato persona. Avanti il prossimo.

Ma, tra i miti dell’amore romantico promossi dalla serie, il messaggio forse più pernicioso è: l’amore vince tutto. Non è così, al contrario di quanto insinuerebbe qualche pettegolo latino. Mai come dopo queste feste posso assicurarvi che l’amore non vince, per esempio, lo stress post-traumatico, oppure l’alterazione delle percezioni sensoriali e qualsiasi malattia la possa causare. Va bene che un conflitto interno di natura psicologica sia più conveniente per la trama di una serie, ma un Duca che se ne vuole restare da solo potrebbe davvero essere aromantico, cioè membro di una categoria che si vede rappresentata solo nella forma di bisbetiche domate (magari femministe) e di misogini trasformati dalla donna giusta. Il fatto è che questo lo capisco perfino io, che ho il dente avvelenato: un tipo che non vuole figli potrebbe non volerceli e basta. Non va “convertito” con un atto sessuale che diventi non consenziente in corso d’opera. Né i figli sono la cura, né lo è l’amore.

Però ho una buona notizia: se l’amore non vince tutto, è anche vero che “tutto” non vince l’amore. Cioè, il gigantesco complesso di sfighe che può abbattersi sulle migliori intenzioni del mondo potrebbe non riuscire a separare per sempre due persone che, a un certo punto della loro vita, si sono ritrovate nello stesso posto allo stesso tempo, e vogliono provare a restare insieme finché rimarrà una buona idea (o almeno si spera).

Possono continuare anche quando si scopre, come sopra, che questo condividere spazi e pezzi di vita potrebbe non proseguire nelle modalità che entrambi auspicavano. Una pessima relazione può diventare un’ottima amicizia, o un rapporto di lavoro molto remunerativo. Un’ottima amicizia può diventare una buona relazione, o anche una cogenitorialità. Ma tutto ciò, ammesso che si voglia, succederà a un solo patto: bisognerà accettare il cambiamento. Accettare che il sentimento si trasformerà, drasticamente o meno, e che se succede non c’è niente di strano. Per esempio, si può star bene insieme e allo stesso tempo non stare insieme, o non come si credeva.

Forse il problema con la finta nostalgia, e le serie che la promuovono, è che pur di incollarci a uno schermo ci dicono esattamente quello che vogliamo sentire, perché quello che succede più spesso è noioso e già lo conosciamo.

Però, e ne parlavo oggi con un’amica: ci sottovalutiamo. Pensiamo spesso che non potremmo reggere un mondo in cui non stiamo tutto il tempo a prenderci per il culo da sole/i, invece di affrontare le cose come stanno, e partire da quelle per trovare una felicità reale.

Quindi smettiamola di girarci intorno, fosse anche a ritmo di valzer: l’amore non vince tutto. Però, una volta che si accetta il suo volto umano e cangiante, non basta tutto a vincere l’amore.

E adesso tornate pure a fare il casché.

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