
In realtà è come dice il vicino scozzese. A Barcellona, il cattivo tempo è cattivo e basta. Niente neve, poco vin brulé, pochissime tisanine accanto al fuoco (o almeno accanto alla stufetta kitsch che riproduce l’effetto di un focolare). Solo vento gelido, al massimo nevischio, e tu che provi comunque a sedere ai tavolini all’aperto riscaldati male, visto che con le restrizioni questo passa il convento.
Che poi io i nomi di tempeste e uragani li avevo sentiti e “risentiti”, anche nel senso che mi offende il fatto che siano tutti femminili! “Filomena”, però, mi mancava. Va detto che la tempesta che sta provocando morti in giro per la penisola iberica (i primi colpiti, indovinate un po’, sono i senzatetto), a Barcellona si è limitata a fare il miracolo di lasciare tutti a casa, coi saldi in corso.
No, perché venerdì sera dovevate esserci, per il Portal de l’Àngel: delle file che non terminavano più, e per entrare da Bershka! Ma che davero? Io, che all’improvviso m’ero trovata un gradito ospite a cena, ero corsa per un curry da asporto fino al Govinda: secondo il sito web, e il cartello adocchiato tempo fa all’ingresso, il primo ristorante indiano & vegetariano di Barcellona apriva a cena solo il fine settimana, dalle otto in poi. E invece, ancora alle 19.57, il locale era buio e deserto, e io ero l’unica figura antropomorfa nei paraggi che non fosse in fila per il vicino Decathlon!
Sabato, invece, il silenzio.
Per strada circolavano al massimo due o tre persone infreddolite. Le saracinesche mi si abbassavano sotto il naso, alle sei di sera. Cartelli stampati in fretta informavano della chiusura temporanea di questo o quel negozio. Ho controllato meglio le restrizioni del giorno, sulla strada infangata da un nevischio caduto ancor prima di formarsi. Niente: quei negozi o dovevano chiudere verso le otto, diciamo, o a questo punto non dovevano proprio aprire. Che Doña Filomena (la tempesta, insomma) avesse causato l’allerta meteo pure in città? Va bene che ho il telefonino dei puffi, ma a spulciare i giornali online non trovavo nessuna informazione in merito.
A quel punto, per liquidare la situazione e pensare ad altro, ho deciso che avevano chiuso per mancanza di clientela, tanto stavano tutti tappati in casa per il combo lockdown-meteo. A questo punto poteva pure scattare la battuta: vabbè, ma se vivi nel centro storico hai più freddo in casa che fuori! Purtroppo non c’era niente da ridere: io ho dovuto rompere il porcellino salvadanaio per procurarmi tre finestre isolanti, e chi non ha il privilegio di poterlo fare rischia di morire per uno scherzo della bombola, o un corto circuito. Stava succedendo l’altro giorno in carrer Robadors: strada di filmoteche, prostitute organizzate e allacci alla corrente finiti in fumo.
In Avinguda de la Catedral, però, mi si è presentato davanti un siparietto curioso. Un gruppo di ragazzi sulla ventina, muniti di mascherine e giacconi pesanti, scendevano a grandi balzi gli scaloni della cattedrale, e intanto cantavano “Happy Birthday“, ma in catalano. “Moltes felicitats! Moltes felicitats!”. Cavoli, meno male che sembravano comunque entusiasti, pieni di vita! Se no che tristezza, un compleanno festeggiato così: in strada, senza potersi fermare a bere, senza fare troppo tardi a casa di qualcuno, dove comunque non si potrebbe brindare in più di sei persone. A me non dispiace passarmi i quaranta in questo modo, il mese prossimo, ma un tipo così giovane…
“Moltes felicitats! Moltes felicitats!”
Poi, alle mie spalle, è successo. “Parabéns pra você…” ha attaccato un ragazzo bassino e di carnagione scura, che camminava accanto alla fidanzata. Il brasiliano ha continuato a cantare anche quando il festeggiato e i suoi amici non potevano più sentirlo: era come se volesse ripassarsi la canzone per sé. Da quant’era che non la intonava? L’aveva fatto almeno su Zoom, in tempi recenti, a beneficio di un qualche nipotino che non sta vedendo crescere?
A quel punto, senza neanche accorgermene, ho cominciato anche io sotto la mascherina: “Tanti auguri a te…”, ma proprio alla Johnny Dorelli. Poi sono andata in crisi al secondo verso. Dai, lo sapete perché. È la più scema delle battute che si fanno ai compleanni dei bambini, però in quel momento, nello spiazzo deserto e buio e coi piedi nella fanghiglia, veniva proprio da proseguire la canzoncina con la consueta minaccia: “… e la torta a me…”.
In realtà, nel mio caso è la quiche. Per i miei quaranta sarà una torta salata, di quelle alla francese. Era l’unica cosa che mi mancava di ciò che mangiavo prima della svolta vegana, specie adesso che ho provato anche le costatelle del Vegan Junk Food (e pure delle originali mi mancava più che altro la salsetta olio e limone di mamma). Ho scoperto da poco che fanno quiche vegane su ordinazione in un negozio dalle parti del Paral·lel, pensato più per la clientela locale che per i fan salutisti dell’avocado. Chissà come andrà la mia festicciola. Febbraio è un mese strano, imprevedibile: a volte fa schifo e a volte no. Voglio dire, aprile a Barcellona è una garanzia, per esempio: viene con un freddo e un maltempo da far schifo perfino ai britannici (tipo lo scozzese di cui parlavo a inizio post), e ho detto tutto. Febbraio, invece, ogni tanto sorprende.
E se Doña Filomena dovesse tornare tra un mese, aggiungiamo un posto a tavola pure se siamo già in sei.