
Quando ancora mi ostinavo a bazzicare nel mondo accademico, il tizio che capitava alla mia destra alla cena di Natale del gruppo di ricerca era quello che, poi, mi invitava a uscire.
Era sempre quello alla mia destra: quello a sinistra non mi cacava proprio. Misteri del magico mondo della ricerca.
Scherzi a parte, una volta il tizio alla mia destra garbava un pochetto anche a me: mi contattò la notte stessa, dopo la cena, per parlarmi di un suo progetto letterario che aveva un nome particolare. Era il nome di un luogo impossibile: lo chiameremo Smeraldina, come la città acquatica di Calvino, dai percorsi cangianti. Fu piuttosto cangiante anche l’autore di Smeraldina, perché dopo avermi tirato un bidone all’appuntamento fu vago su un possibile nuovo incontro. Poi sparì del tutto, e alla cena di Natale successiva ci fu da fargli gli auguri via mail, perché gli era appena nata una bambina! Non dovrei dilungarmi su questo aneddoto scemo, ma la fine mi fa ancora ridere: il neopapà si presentò tempo dopo a una noiosissima conferenza del gruppo, accompagnato da una dottoranda che era di una bellezza incredibile. Allora mi arrivò il bigliettino di un collega del gruppo (che pure avevo avuto alla mia destra a una cena): “È arrivato il tuo fidanzato!”. Al che risposi: “Con una nuova fidanzata!”. Nel passamano di pezzetti di carta, poco mancò che il messaggio atterrasse in grembo al mio “fidanzato”: così iniziarono dei comici tafferugli che furono evidenti anche al conferenziere.
Di questi ingenui tentativi di sbarcare il lunario nel mondo universitario, mi resta Smeraldina, o meglio, me ne resta l’idea: un posto che non esiste, ma che l’autore crea e coccola come se fosse qualcosa di più reale delle dottoresse italiane di ricerca che lo aspettano nel bar più scalcinato del Raval. Un posto che, peraltro, il suo creatore abita più volentieri di una città reale come Barcellona: così prosaica, così poco francese e poco catalana (il “poco spagnola”, per il tipo, doveva essere un bonus)… Smeraldina, invece, se ne sta sospesa su uno sperone di roccia, suppongo dalle parti del Canigó, e il suo esserci e non esserci è una consolazione per il suo autore.
E io ce l’ho, una Smeraldina? Mi è venuto da pensarci adesso, tanti anni dopo, in piena pandemia.
Sì, che ce l’ho. Solo che come sempre devo essere un po’ megalomane: la mia Smeraldina è un continente intero. Forse l’avete anche sentito nominare: si chiama Europa. Non cominciate, sono consapevole che non esiste. Che è stata sostituita da una congerie di regole per agevolare la circolazione di merci, ma non quella di persone. Per essere una che non esiste è pure sprucida, la signora Europa, perché si è barricata in casa e s’illude di non far entrare più nessuno.
Però, che volete, l’Europa me l’hanno fatta odorare (e so che è un’espressione usata dai frustrati quando una non è interessata) e da allora non me la dimentico più: anche se questa storia dell’Erasmus è piena di bucature, è una sorta di Paese dei Balocchi da cui ti risvegli troppo tardi. Basta un’esperienza prolungata nella stessa meta dell’Erasmus a rivelare l’esperienza per quello che è: una bolla asettica e lontana dal “mondo reale”, qualsiasi cosa sia.
Però è comunque un inizio, e poi io, con l’Europa, vado per esclusione: quando proprio sono a rota di appartenenze, mi dico che mi può restare solo quella.
Per esempio, in Italia si strappano i capelli perché l’Accademia della Crusca segnala (non “accetta”) l’uso di cringe? Mado’, che cringe! Io a volte, in strada, mi scopro a chiedermi ad alta voce: “Ma qué calle és això?”, che non ha senso in nessuna lingua esistente. Allora, con buona pace del ritorno delle autarchie linguistiche, mi convinco che è una cosa europea.
Oppure, in Italia continuano a sfottere la gente che, come me da vent’anni, pensa che i film doppiati siano una roba fastidiosa? In Europa no. In Europa, per parlare di Trono di Spade (!) con qualche connazionale non devo cercarmi su Google il nome di Littlefinger, e scoprire per giunta che è Ditocorto.
Inoltre, in Europa ci sarà pure qualche troglodita che posta le bistecche nelle pagine vegane, ma non se ne stanno a seguire affollate pagine Facebook che mi dicono (al maschile, perché il maschile fuori dall’Europa è neutro): “Vegano, stammi lontano”. Volentieri! Ma poi mi giuri con la mano sul cuore che non ti avvicini tu?
In Italia, poi, è quasi impossibile trovare candidati per la revisione di pari (in europeo: peer review) per un mio articolo sul poliamore, e l’unica revisione che arriva a me e al co-autore è di una persona che sembra più incazzata con l’argomento dell’articolo (monogamia e capitalismo sono correlati? ma neanche per sogno, Silvia Federici puzza!) che disposta a dare consigli per migliorarlo. In Europa, questo pezzo d’Europa, posso lanciare l’articolo con la fionda a tre o quattro ricercatrici: l’unico problema è che non parlano l’italiano.
Sono europea ogni volta che leggo che i tacchi “sono necessari” ai matrimoni e agli eventi eleganti, oppure sgamo video su come occultare il reggiseno sotto i vestiti scollati: mi metto pure a seguire un po’, poi mi ricordo che il reggiseno non lo porto. Non vi dico, poi, quando mi leggo tutte le pippe mentali sul costume giusto da mettere. Poi mi viene in mente che, ammesso che mi ricordi di fare qualche bagno a mare (quest’estate mi è letteralmente passato di mente, quando ho realizzato era quasi ottobre), vado alla Mar Bella che ha l’opzione nudista, e mi piazzo sulla collinetta preferita dai gay: al massimo mi troverò a dispensare olio solare a bellissimi ragazzi che se lo spalmeranno da soli, e tempo cinque minuti baceranno il tizio con cui hanno appena attaccato bottone (ma come fate? scrivete un manuale, che so…).
Potrei continuare all’infinito, e con tematiche molto più importanti, prima che mi tiriate fuori il benaltrismo: d’altronde, l’Europa che conosco somiglia un po’ all’Italia che capisce che le invasioni sono miti smentiti dalle statistiche.
L’Europa è un’utopia che definire imperfetta è dire poco, ma allo stesso tempo, per chi come me si identifica sempre meno nella sua cultura d’origine, è un bel posto in cui stare. Un posto che, ahimè, odora di privilegio: quello di viaggiare, conoscere lingue, avere il passaporto giusto. Credete, però, che è un privilegio che si va facendo accessibile anche a gente che parte con meno soldi di me, e senza l’approvazione della famiglia, e mette su una pizzeria a Berlino che, non ci crederete, non sempre è gestita “con i soldi della camorra”.
Un giorno incontrerò di nuovo il creatore di Smeraldina, magari mentre porta i figli a spasso per questa Barcellona più a misura di catalano, anche se per colpa del coviddi. A questo punto, come in uno scambio di figurine Panini (un ricordo italiano, questo, che voglio conservare), ci daremo notizie dei rispettivi non-luoghi.
Spero lui sia felice nel suo, in questo momento. In fondo dovrebbe essere un diritto di chiunque, scegliere a quale posto non appartenere.