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Ecco, più o meno finisce così.

Come l’italiano strafatto che scorrazza per la Ronda de Sant Antoni con addosso un paio di tette finte: pure piccole, considerando la nazionalità del popputo (appena una sesta). Come i suoi amici che esibiscono dei locks in stile giamaicano, in tempi in cui il dibattito sull’appropriazione culturale è giunto perfino in Italia. Come questi tre che fanno più casino loro di tutti i coetanei che invece sono alla manifestazione per la liberazione di Pablo Hasél, a poche decine di metri da lì.

Così mi sento io: fuori contesto. Mi ci sento quando leggo tutti quegli articoli accusatori sull’assenza di donne di sinistra (perché il PD è sinistra, capito?) in questo governo di salvezza nazionale che sta facendo rimpiangere i draghi di Daenerys.

Sì, lo so, ho già parlato dell’alienazione di una che ormai si sente più europea che altro, con tutte le controindicazioni del caso: così ho pensato a una terapia d’urto. Mi sono messa a farmi i fatti delle altre. Che succede in Europa? Cose simili all’Italia, ma in contesti più femministi.

Su Píkara Magazine ho trovato un podcast con l’intervista a Mireia Vehí, deputata della Cup: la sinistra radicale indipendentista. Ve ne parafraso qualche stralcio, ma se avete un’oretta e capite lo spagnolo, ascoltate l’originale.

Gli uomini usano la violenza per limitare l’attività politica delle donne. Senza pensare ai numerosi casi nel mondo di donne politiche assassinate, nei paesi europei ci sono forme comunque efficaci per annullarne l’autorità.

La violenza verso le donne che fanno politica si inscrive nel contesto delle violenze e discriminazioni connaturate al mondo politico, che nel caso specifico delle politiche donne assume molte forme: screditare il loro lavoro, attaccare il loro aspetto fisico, e utilizzare qualsiasi mezzo per annullare “la rivale in più” nella lotta per il potere. Ovvio che i mezzi usati contro le donne siano vincolati con la discriminazione di genere: perché l’obiettivo è puntare alla giugulare con tutti i mezzi che possano funzionare. E la discriminazione di genere, banalmente, funziona.

Gli attacchi alle donne della Cup sono simili a quelli destinati ad altre donne politiche femministe: quelle di Bildu e altri movimenti indipendentisti di estrema sinistra. Nei momenti più duri della politica catalana, la forma più efficace di opposizione alla Cup era insultarne le donne. Perché? Perché il parlamento è stato, fino a tempi recentissimi, un posto abitato da uomini e dunque “pensato” per uomini, cioè costruito intorno a forme di aggregazione e giochi di potere al servizio della mascolinità tradizionale. Per Vehí i sintomi di questo sono: l’ossessione per il leader unico, per l’uomo forte che “organizzi” tutti gli altri (finché non si arriva a potergli fare lo sgambetto, aggiungo io); discorsi molto lunghi e retorici volti a coprire il poco lavoro che in realtà si sta facendo (un lavoro mirato, aggiungerei, soprattutto a dare un contentino agli elettori); i rapporti clientelari. Su questi dico una parolina io: sono alleanze decennali, spesso ereditarie, fondate su criteri che non seguono altre logiche che quelle di potere. Dinastie familiari che si palleggiano privilegi e contatti, agganci con l’alta finanza, trasformismi assortiti quando tutto va male. Le reti che si creano in questo modo si tramandano con criteri variegati, spesso seguendo banali rapporti di parentela. Ma credete che chi ha costruito la ragnatela, o chi se le ritrova in dotazione, la condivida all’improvviso con categorie che si affacciano al potere solo adesso?

Se, come argomenta Silvia Claveria, la rappresentanza delle donne in tempi recenti è appannaggio dei partiti di sinistra (mica del PD!), anche in questi ultimi non mancano i giochi di potere di cui sopra (e scatta il grazie al ca’, da intendersi qui in senso letterale). Dunque, il trattamento che questi partiti riservano alle donne non ha niente a che vedere con le ideologie ed è tutto finalizzato a mantenere il bacino di voti o la poltrona, o comunque la pagnotta. Il messaggio alle donne diventa: “Sappi che i tempi sono cambiati e tocca farti spazio, ma questa è casa nostra“. E la prima “a”, in “cAsa nostra”, nel caso italiano la metto giusto perché sono un’inguaribile ottimista.

In conclusione: nel gioco di potere della politica, chiunque non sia di casa deve entrare in punta di piedi, e solo per leccare i piedi altrui. Se c’è un qualsiasi mezzo per escludere questa persona dal potere si userà (si pensi alla storia per cui “l’America non era pronta per un presidente nero”). Nel caso della Cup descritta da Vehí, c’è il body shaming figlio della pressione estetica: non vi mando i tremila articoli acchiappaclick sulle ascelle non depilate delle deputate di sinistra e sul loro look “antisistema”.

Come dice Vehí, c’è il colpo di scena (e questa me l’ha raccontata anche un’amica politologa): gli stessi deputati che ti chiamano letteralmente “strega” alla Camera, ti fanno gli occhi dolci o le avances in privato. Sono cresciuti così, il maschilismo non è appannaggio di un fascista navigato di cinquanta o sessant’anni. Un politico italiano “progressista”, in visita a Barcellona, parlava in mia presenza di “quel femminismo esagerato, sapete?”, e non mi credeva quando gli spiegavo che “femminismo esagerato” era un ossimoro.

Insomma: in una sacca di potere come può essere un partito politico o il parlamento, l’obiettivo di chi il potere ce l’ha è colpire sotto la cintur… ehm, dove fa più male, per assicurarsi di non dover condividere neanche un’oncia dei propri privilegi. Come si fa, se la potenziale avversaria è donna? Si usano gli stessi metodi di marginalizzazione che conosciamo in altri ambiti! Con il messaggio di sempre:

“Questo non è uno spazio per te”.

Quante volte l’abbiamo sentito o almeno percepito? E secondo me in Italia non capiamo che non serve a niente colpevolizzare le vittime. La nostra prima reazione di fronte a questa faccenda è: “Sono le donne politiche italiane a non prendersi lo spazio!”. Temo sia un modo riduttivo e poco realistico di affrontare la questione su chi arrivi a comandare nella nostra società.

Ci torneremo.

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