Howards End - Emma Thompson and Vanessa Redgrave | Emma thompson, Vanessa  redgrave, British actresses

Finalmente ho capito perché non dormo! Sento freddo. Cioè, a volte caldo e a volte freddo. Ieri notte, ad esempio, avevo il letto gelato: cose di mezzi tempi.

Però il dormiveglia di queste notti strane mi sta regalando delle chicche che neanche sotto acidi.

Ieri, per esempio, mi sono svegliata pensando: Barcellona è Wickham Place. Adesso, se vi piace come scrive E. M. Forster, o come recita Emma Thompson, mi avrete dato comunque per causa persa: il gelo delle lenzuola mi è arrivato direttamente alla testa. Se invece non sapete manco di cosa io stia parlando, Wickham Place è la casa vittoriana in cui vivono le due sorelle di Casa Howard, col loro fratello Tibby che, per me e il compagno di quarantena, è il vero eroe della storia! In ogni caso, il cognome dei tre fratelli è Schlegel, ma viene pronunciato all’inglese, con la prima “e” che diventa “i”, e non alla tedesca come avrebbe fatto il loro padre, omonimo e connazionale di un grande filosofo tedesco. Gli Schlegel londinesi, invece, sono un po’ cittadini del mondo: devono lasciare la loro casa di sempre, e se ne fregano. Per Margaret, la sorella maggiore, una casa vale l’altra e Wickham Place non è né meglio, né peggio di altri posti. Ecco, per me Barcellona è un po’ così: una casa in cui sto comoda, come ce ne sono tante. Dico scherzando che ci resto per inerzia, perché farei lo stesso tipo di vita in altri posti che mi piacciono o mi incuriosiscono, ma sono più freddi. Quindi mi tengo il mare e la primavera un po’ folle, senza mettermi a piangere se circostanze non tragiche mi spingessero ad andare altrove.

A dirla tutta, per me anche l’Italia era un po’ Wickham Place: quando una connazionale mi chiede proprio da Londra “se penso mai di tornare in Italia”, non è che io arricci il naso e risponda subito di no. Mi rendo conto, piuttosto, di non averci mai pensato. Perché dovrei? La vita da mezza asociale la posso fare dappertutto, semmai mi piace sentirmi parte di una comunità internazionale: quindi forse mi troverei benino a Milano, ma s’era detto che non disdegno sole e mare.

Per questo, svegliandomi ieri dopo l’ennesima nottata di sonno scarso, pensavo all'”apolidia” spietata delle nostre sorelle Schlegel, intellettuali benestanti e suffragette di default, più che per passione. Nel loro caso, però, viene in soccorso la mitica Mrs. Wilcox: una signora anziana che sarà pure sposata a un arido uomo d’affari, avrà anche tre figli uno più “moderno” e scemo dell’altro, ma è nata a Casa Howard, anzi, “Howards End”: il nome originale suona tipo “la fine degli Howard”. È una casa rurale dall’aspetto antico: il signor Wilcox l’ha deturpata con un garage, ovviamente, ma c’è ancora un albero secolare che vanta nel tronco dei denti di maiale! Una superstizione contadina, per curare il mal di denti. È per questo che Mrs. Wilcox non ci può proprio pensare, quando scopre che la sua nuova amica Margaret Schlegel deve lasciare casa sua. La abbraccia, la compatisce, e poi fa la cosa più strana di tutte: le lascia Casa Howard! Sì, gliela intesta all’ultimo momento in barba al marito arido e ai figli scemi, che poi tanto scemi non sono, perché bruciano il bigliettino scritto dalla mamma in punto di morte: tanto non ha valore legale. Ma ci sono cose, suggerisce l’autore in quella sua prosa disinvolta, che la legge non controlla.

A me piace un sacco questa storia di prestare a qualcuno le proprie radici. Mi ricorda gli immigrati italiani che a inizio Novecento si portavano dietro i tralci delle viti di casa, poi facevano il vino e lo offrivano con compiaciuta fanfaronaggine alla nuova comunità, forse anche a John Fante. In un romanzo che non so se pubblicherò mai, anche perché ha la genesi difficile ed era nato come opera “a quattro mani”, un insegnante precario di Napoli ripudia il nome di famiglia perché non se ne sente degno, quindi fantastica sull’idea di prestarlo a un altro personaggio: uno straniero ancora più “perduto”, tanto è vero che ha smarrito il suo nome o, comunque, se lo tiene per sé. Verrebbe da dire al protagonista (e all’autrice): come fai a prestare il tuo nome agli altri, se non lo vuoi neanche tu? Mrs. Wilcox invece è tutt’uno con la sua casa, con le sue radici, che “presta” a Margaret solo quando le tocca lasciare questo mondo, e condividere la fine degli Howard per cedere letteralmente il terreno a un nuovo inizio.

Ma tanto, Casa Howard è un capolavoro del 1910, epoca, come ricorderete, di grandi cambiamenti. Il mio romanzo fetecchia l’ho cominciato a scrivere a inizio 2019: altra epoca che quanto a cambiamenti non scherzava. In entrambi i casi, ciò che avrebbe fatto seguito sarebbe stato ancora più “clamoroso”, per usare un eufemismo, ma i cambiamenti clamorosi inducono spesso a riflettere sul prima.

Che la porti avanti un grande scrittore, o una sfigata insonne senza radici, la questione sopravvive nel tempo: cos’è l’identità? È fissa, è fluida, ne ho bisogno? Per fortuna non c’è una risposta definitiva, e non so se ci sarà mai.

Non so nemmeno se ci sia in agguato anche per me una Mrs. Wilcox, pronta a prestarmi le sue radici intestandomi una bella casa di campagna.

In tal caso, sapesse fin da ora che non mi offendo mica, thank you very much.

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