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Da oltre un decennio, frequento corsi di scrittura in varie lingue. Ecco un bilancio, a seconda della nazionalità del corpo docenti. Comincio con la Spagna, per liquidarla subito: i corsi che ho seguito erano molto concreti, finalizzati a pubblicare in fretta o scrivere romanzi che accattivassero il pubblico. Erano tenuti o da editor di altissimo livello, che però non avevano mai finito un romanzo proprio, o da prof. che avessero pubblicato con piccole case editrici.

In Italia, invece, mi sono giovata di finaliste a premi famosi e di “Quelli che… Baricco” (cioè, gente uscita da qui).

Per gli USA: autrici di best-seller, vincitori del PEN.

Passiamo agli insegnamenti: per esempio, come affrontare le descrizioni.

Italia: eh? Non mi fai una planimetria della casa della protagonista, compresa di numero catastale e inventario dei mobili? Cosa direbbe Marguerite Duras?

USA: descrivi solo ciò che ti è necessario alla trama. Vedi, una volta Mark Twain

Ok, un altro aneddoto su Twain e mi ammazzo. Piuttosto, cosa devo raccontare del passato dei personaggi?

Italia: tutto! Altrimenti cosa scrivi, una brutta serie americana? Come si chiamava la zia di terzo grado della protagonista? Che numero di scarpe portava la sua compagna di banco alle medie? Non quella che se ne andò a metà quadrimestre, ma la brunetta che le fregava la merenda.

USA: show, don’t tell.

Grazie. Come affrontare i monologhi interiori?

Italia: più introspezioneee! Dov’è il flusso di coscienza di quaranta pagine dopo che la protagonista si è rotta un tacco? Le liste di azioni lasciamole a Umberto Eco, che non era mica uno scrittore.

USA: show, don’t tell.

Vabbè, ma in generale, cosa è meglio spiegare e cosa no?

Italia: mai dare per scontate le informazioni. Chi ti legge che ne sa, se una che sbatte porte e distrugge mobili è arrabbiata?

USA: show, don’t tell.

Scherzi a parte, mi piace l’idea ‘mericana di non trattare il pubblico con condiscendenza. Ciò che non afferreranno al primo colpo, verrà spiegato meglio nei paragrafi successivi. Stavolta il modello non è Mark Twain, ma Naipaul.

Però in che lingua scrivo? In italiano. Della mia alienazione dalle cosiddette radici ho già parlato qui.

Quindi cosa so fare, io? So fare l’Europa. Qualsiasi cosa significhi, d’altronde il prof. americano dice che non devo essere condiscendente. Allora mi capite, se vi dico che so fare l’Europa? Sono italiana, ma sono anche altro. Forse sono più “altro”, adesso. Lascio i libri italiani a metà, sospesi al monologo interiore della protagonista su quanto rifarsi le tette al liceo le avrebbe potuto aprire le porte dell’amore.

Adoro Hilary Mantel. La storica fallita in me la detesta, per come tratta le fonti, ma come scrittrice è grandiosa. Meglio mille romanzi storici che di storico non abbiano niente, che l’ultimo sproloquio dell’ex sessantottino che crede ancora in Freud, ma non nell’asterisco.

Cos’è questa Europa, al di là delle frontiere chiuse? È privilegio, e pure libertà, se hai il passaporto giusto.

E nonostante tutto sono felice di abitarla, di spiegarvela un po’.

Magari un giorno lo farò senza che nessuno pretenda di insegnarmi come.