Immaginate questa.

Sono al Port Vell di Barcellona, davanti a un praticello costeggiato da un parapetto grigiastro, su cui è possibile sedersi. E io, infatti, siedo. A due metri da me, un’intera scolaresca sta osservando un pappagallo.

Capito? I pappagalli sono numerosi in città, ormai da decenni. Ma quelle creaturine di sette-otto anni facevano “oh” lo stesso.

Io non mi sforzavo neanche di guardare. Non ero abbacchiata, ero stanca. Avete presente quando cambiate vita, e allora non riconoscete più la vostra tribù?

La mia tribù è tanto caruccia, ma fa molto Pasqualino Passaguai, come direbbe mia madre: perde il lavoro, perde il cellulare, perde soldi, perde l’appartamento. Non si presenta agli appuntamenti e neanche avvisa, perché ancora resiste alla “dittatura dei cellulari”. Vuole farsi i soldi “senza puntare troppo al guadagno”. Vuole fare acquisiti di qualità, ma “senza spendere troppo”. Prima o poi chiede aiuto per le questioni più assurde, proponendo soluzioni poco legali. Non vi dico se c’è da viaggiare, in questi tempi di “medicalizzazione eccessiva” (sic) e “dittature farmacologiche”. Come se il biglietto se lo procurassero loro, poi.

Credetemi, la mia tribù è estenuante. Soprattutto, non è più la mia tribù.

Non lo è da quando ho affrontato la mia crisi. A volte non si tratta neanche di superare: affrontare basta e avanza. Per questo l’altro giorno, quando mi sono seduta lì al porto, stavo pensando di formare un gruppo MeetUp: Il club della seconda opportunità. Lo so, nome demmerda. Ma ci sarà pure della gente che si trova nella mia stessa situazione. Donne divorziate che hanno scoperto che c’è vita al di là della coppia, e che le loro amiche non la pensano come loro. Emigranti che passano dieci anni a Berlino, e poi tornano in paese: lo stesso paese dell’anziana coppia che anni fa aveva il figlio disperso per Barcellona (il ragazzo dormiva in strada), ma aveva ritardato le ricerche purché non si sapesse in giro. Per usare una metafora letteraria: non sempre il nostro mondo esteriore cambia con la stessa velocità di quello interno.

Stavo pensando a tutto questo, a pochi metri dalla scolaresca che osservava il pappagallo, quando mi sono accorta che le deliziose creaturine, adesso, guardavano me. In effetti, dovevo essere uno spettacolo affascinante, col muso lungo venti mentri che mi ritrovavo.

Era pietà, quella che leggevo negli occhi della bambina davanti a me? La sua mascherina formato Lilliput non mi aiutava a capire. Un compagnello della piccola mi ha buttato lì un “Hola” dolcissimo, all’unisono con un’altra amichetta. Ho ricambiato: mica sono un mostro! E so’ trentacinque anni che degli adorabili marmocchi mi vedono col broncio e si chiedono cosa non vada. Solo che le prime volte ero una loro coetanea, e adesso ho l’età delle loro madri, o giù di lì.

Sarà una mia proiezione, però sembravano chiedersi davvero, magari in catalano, “Chesta che ha passato?”. Con interesse genuino, e pure voglia di aiutare.

Magari mi sbaglio. O magari le future generazioni non avranno bisogno di una seconda opportunità.

(No, vabbè, sto morendo).

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