A nove anni portavo la macchinetta, senza capire perché. Ma in famiglia insistevano, quindi doveva esserci una ragione importante.

Era il 1990, le macchinette erano una ferraglia immonda, e non sempre efficace. “Che succede se le ritornano avanti i denti?” chiese il dentista ai miei. “Proviamo”, risposero loro. Per quando avevo diciannove anni, mi erano ritornati avanti i denti.

A ventinove anni provai a vedere se le macchinette fossero migliorate e potessi risolvere tutto con un apparecchio estraibile. Altrimenti, non se ne faceva niente. Non se ne fece niente. Per una volta capii qualcosa che in vita mia non sempre afferro: i tempi non erano maturi, e in quel momento il gioco non valeva la candela. Dovevo aspettare due cose: gli apparecchi trasparenti, e la mia grassa risata in faccia ai canoni estetici inculcati. Sono riuscita ad allineare i denti a trentanove anni, quando per me era diventato solo uno sfizio, che mi potevo permettere.

Cinque anni fa, invece, volevo studiare psicologia. Era un vecchio desiderio, ma avevo avuto sempre altre priorità. Peraltro, cinque anni fa il piano era studiarla solo per poter diventare terapeuta junghiana, e avevo detto alla società preposta: visto che è contemplato nel regolamento, prima decidete se accettarmi come apprendista, poi formalizzo l’iscrizione. Non mi hanno accettata. A parte l’impreparazione (ma va’), il problema segnalato dai miei esaminatori era che volevo “aiutare il prossimo“. Si vede che dovevo aspirare solo al loro grasso onorario.

Sono passati cinque anni. Intanto sono stati sdoganati i corsi universitari 100% online, con la possibilità di pagare per modulo invece che tutto insieme. Sono arrivati anche i corsi per imparare il coaching: terapia che, dite quello che volete, era proprio quello che cercavo, il che mi era stato predicato già dodici anni fa. Che dire? Allora i tempi non erano maturi. Solo che stavolta sono io, e non una società che vede in Jung il suo profeta, a volere una solida preparazione psicologica prima di pensarmi come coach.

Così, stamattina sono stata accettata nel Master abilitante in Psicologia dall’università scrausa di mia scelta, che il compagno di quarantena ha aborrito subito col suo disgusto-windsor (che è come il disgustorama di Luttazzi, ma inglese), e che però ha una retta più bassa e orari flessibili. Soprattutto, quest’università qui mi ha accettata: i tempi sono maturi.

La frase “Ogni cosa a suo tempo” può essere una trappola per rimandare all’infinito ciò che vogliamo fare oggi. Oppure può essere un proposito sacrosanto: basta imparare che certe cose, come le tecniche di ortodonzia e le rette universitarie, sfuggono al nostro controllo, e non ci resta che aspettare o passare avanti.

A volte aspettare è la cosa giusta: arriverà l’occasione di fare ciò che vogliamo. Altre volte… aspettare è comunque la cosa giusta: non arriva un bel niente, e cambiamo percorso. Se non abbiamo colto al volo l’occasione, nella miglore delle ipotesi non ce la sentivamo, che è la migliore premessa per fare disastri.

E i disastri, almeno, facciamo quasi sempre in tempo a scongiurarli.

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