
Intendevo questo.
Questo è ciò che volevo dire quando parlavo di trarre il miglior finale possibile da una storia demmerda: nel romanzo che pubblicherò l’anno prossimo, ho mischiato vicende mie con fatti altrui o di pura fantasia. Le vicende mie erano state pesanti: colpi di scena, litigi, attese. Soprattutto le attese, lunghe giorni, mentre una persona a me cara, con problemi gravi, finiva nelle grinfie di chi la voleva curare con i “rituali indigeni” (sic). “E che sono indigeno, io?” direbbe Totò.
Io invece mi sono curata così, dopo l’esperienza: ho scritto tutto. Avrei potuto dire “amen” e tirare avanti, se lo sapete fare vi invidio e approvo. Intanto che mi svelate la vostra tecnica, la mia è quella di trarre il miglior finale possibile da una brutta storia. E vale per tutto, eh, compreso il panino “vegetale al tonno“, ossimoro che infesta le vetrinette dei bar iberici: la prima volta leggiamo solo “vegetale”, diamo un morso… Poi decidiamo se ingaggiare una lotta con l’ignara cameriera, o cedere il panino alla collega che non ha pranzato, né ha tempo per comprarsi qualcosa.
Io se becco la, ehm, “curandera indigena” (che poi era italianissima) le farò comunque uno strascino che non si dimenticherà. Ma ho deciso che questa brutta storia finisce qua: due anni dopo quelle antiche attese, e qualche istante prima del soiotutto che ora mi dice che in Italia non si legge, che se non pubblichi con la casa editrice Stocazzo non sei nessuno, ecc.
Se vi convinco che la salute mentale è patrimonio pubblico, che per ottenerla non basta scimmiottare i riti altrui, la mia è una storia a lieto fine.
(Non so voi, ma io voglio vedere questo finale!)