Ecco qua (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.
Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.
La Corte dei Miracoli

“Quello lì, no”.
Ripenso a questa frase mentre Bruno mi raggiunge in tre balzi, e inizia ad attaccare le mie patatine.
Con quello lì non avrei mai parlato: me l’ero giurata la prima volta che l’avevo visto.
Inauguravano lo Spazio, lui era salito con altri sul palco a dire qualche parola, ma dal pubblico non gli lasciavano aprire bocca da quanto lo sfottevano. Mi ero irritata io per lui, e avevo fatto male. Ringraziando per “l’attenzione” si era scostato la zazzera dagli occhiali, e aveva accarezzato una barba che non si radeva da chissà quanto. Solo allora mi ero accorta che sorrideva.
Da quel momento l’avevo sempre visto davanti a un pubblico di qualche tipo, e sempre curvo, come a volte lo erano gli uomini alti: sembrava che il mondo gli andasse stretto.
Gli chiedevano pareri su tutto, dalla politica al porno amatoriale, e lui rispondeva a voce molto alta, usando iperboli fantasiose e doppi sensi. Era il membro perfetto della Corte dei Miracoli. Un ex compagno di università chiamava così i miei amici rimasti in Italia: artistoidi che trattavano la vita come una mano di carte già persa.
Era per questo che mi ero detta: “Quello lì, no”.
Avevo messo un mare tra me e la Corte dei Miracoli, ed ecco che quella si presentava apposta per riacciuffarmi.
“Ah, erano tue? Pensavo fossero in comune!”.
Bruno ha spazzolato i due terzi delle patatine: per lui tutto il cibo è in comune, cioè suo. È un’altra caratteristica che fa sganasciare la gente.
Anche lui ride tanto, e la sua risata è contagiosa. Troppo. E io ho ancora fame. Mi alzo dallo sgabello e faccio per salutare.
Ma sono appena arrivata, protesta lui. Continua a far coincidere la mia apparizione col momento in cui mi ha vista. Mentre sto per richiudere la porta a vetri, mi sento trattenere per un braccio.
“Ti accompagno” si offre. “Chiacchieriamo un po’, poi torno a piedi a casa”. Vive a cinque fermate di metro.
Attraverso il vetro sporco mantengo gli occhi sulla strada. La via del ritorno è buia e squallida, e prima di uscire ho sentito rumori sul terrazzo condominiale, da cui mi separa un muretto risibile… Sono quasi certa che era lui, col suo mastino. Lascio trascorrere un istante di troppo, poi decido.
“Dai, andiamo”.
E sorrido alla sua immagine riflessa nel vetro.
A lunedì per il seguito!
Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.