Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.
Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.
Il linguaggio del corpo e della fame

Torno a Barcellona con una valigia piena di cose da mangiare.
Mentre gli scrivo mi accorgo che la mia camera è gelida: sarà un problema. L’unico linguaggio che condividiamo al momento è quello del corpo, e della fame.
Ci mette un po’ a rispondere: è tornato da poco anche lui, ha delle cose da fare. La pulizia della casa, il bucato… Non mi aspettavo certo si precipitasse! Magari il giorno dopo, o l’altro ancora…
No. Per vedermi gli servono quattro giorni. Aspetterò?
Chiudo gli occhi. Non ci vediamo da quindici giorni. Insieme ne abbiamo trascorsi solo due. Anche così, la sua lavatrice viene prima di me. Visto che avevo ragione? Era meglio chiuderla prima di Natale.
L’ho spiazzato ancora una volta: che problema c’è? Lui funziona così. Deve togliersi le preoccupazioni dalla testa, per potersi godere qualcosa.
Io non sono “qualcosa”, ricordo a me stessa chiudendo la conversazione. Non tornerò a ricordarmelo per un po’.
Il giorno dopo, la Petulante mi annuncia che Bruno e io abbiamo lo stesso disturbo. È un colpo basso: lei è la mia psicologa, e Bruno non l’ha mai visto. Le diagnosi non si fanno così. Ma ne è sicura, ci siamo trovati. Io da piccola ero di una religiosità ossessiva, dovevo recitare ogni Ave Maria senza distrarmi un attimo, o c’era da ricominciare. A volte guardavo sfinita giù dal balcone e pensavo: è solo un salto, tanto i bambini vanno in paradiso lo stesso. Secondo la Petulante, queste cose non passano mai per davvero. Bruno non mi ha mai parlato di epoche così, ma i suoi impegni quotidiani sembrano una tela di Penelope da disfare ogni minuto, e adesso io sono un impiccio, un difetto nella trama.
“Sei a casa?”.
Il messaggio mi arriva alla fine di una giornata piena d’ansia.
Bruno scrive come se non fosse successo niente. Sta uscendo ora dallo Spazio, se voglio può “passare”. Questo uso del verbo mi colpisce sempre: per me vuol dire al massimo “fare una capatina”, per lui significa restare a cena, o anche a dormire.
Anticipo l’irritazione per il tempo che ci metterà a salutare tutti, e percorrere settecento metri. Mezz’ora, stavolta: sta ancora imprecando contro la folla in strada mentre si getta sul divano. Ha un atteggiamento remissivo, e un po’ compiaciuto: è passato perché gli dispiaceva che “me la fossi presa”, ma lui è fatto così, mi assicura, prima il dovere e poi il piacere. E, a proposito di piacere…
Ritiro la mano che mi ha afferrato e scatto in piedi. È l’unica cosa che è venuto a fare? Allora è solo per questo che ha sottratto tempo alle pulizie generali! O magari vuole un premio per la sola generosità di “passare”…
L’ho spiazzato un’altra volta.
“Forse avevi ragione” borbotta. “Dovremmo smetterla con questa storia”.
Solo perché avrei voluto spiccicarci due parole, prima di ritrovarmi con la mano su una zip?
“Purtroppo so quello che voglio” dichiaro allora. “E so che tu non me lo puoi dare”.
Mentre lo vedo andarsene, ci credo pure.
A mercoledì per il seguito!
Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.